Di Alex Aragona. Originale: Some Thoughts on Private Censorship, Power and Control of Speech, 25 gennaio 2021. Traduzione di Enrico Sanna.
In fatto di diritto di espressione, la norma di massima sarebbe che chiunque, individuo o gruppo, ha il diritto di stabilire chi può accedere al suo spazio e cosa può dire al suo interno, senza interferenze dello stato e senza l’obbligo sancito dalla legge di conformarsi all’opinione pubblica. Questo significa anche avere controllo pieno su chi e cosa rimuovere dal proprio spazio. Questo dovrebbe valere sempre, che si tratti di un bar, un supermercato o uno spazio su internet. In altre parole, lo stato non può costringere nessuno a fare una torta o pubblicare un tweet.
Ma è anche sbagliato pensare che una piattaforma privata sia uno spazio in cui qualunque messaggio può essere ostacolato o rimosso o messo all’indice da parte dei suoi organi di controllo, per cui non ci resta che prendere atto del suo diritto di fare così. Un conto è agire per principio a favore del diritto di un privato o di un’entità di esercitare un controllo e farsi sentire in casa propria; altro è chiedersi se bandire da una piattaforma, dissociarsi da qualcuno (o da persone di un certo “genere”), o rifiutare lo spazio per caso non equivalga a una preoccupante censura che danneggia la libertà di espressione né più né meno come la censura di stato. Chi gestisce e fa le norme che regolano i grandi spazi di discussione ha spesso un’enorme potere concentrato che gli dà non solo la possibilità di esercitare una forte censura, ma anche quel capitale sociale che autorizza altri a fare altrettanto. Chiedersi se un certo atto censorio è “giusto” o “ingiusto” è sempre legittimo e il suo potere di allargare o restringere drammaticamente il libero mercato delle idee dovrebbe essere giudicato caso per caso.
Quali articoli e saggi pubblicare, quali opinioni hanno più impatto, chi rappresenta un’autorità in un certo campo, quali gruppi possono continuare ad usare i loro metaforici megafoni, quali opinioni possono essere considerate “normali” e via dicendo, non sono cose che si possono decidere con un processo oggettivo o scientifico, o anche veramente democratico. Online o offline, un numero relativamente piccolo di piattaforme, pubblicazioni e forum – e chi li gestisce, regola e influenza – decidono unilateralmente chi può avere spazio, la possibilità di intervenire e dibattere o influenzare il discorso. Possiamo dire che le principali attività giornalistiche e i social più popolari, ad esempio, possono talvolta decidere in ultima istanza quali idee, opinioni e discussioni possono raggiungere quel grado di diffusione, quell’impeto, necessari ad acquisire importanza e risonanza. E per questa ragione non dovremmo interessarci solo di chi trova spazio o una piattaforma, ma anche di chi non ci riesce, chiederci perché non ci riesce, e se un particolare caso di censura privata sulla rete danneggia la qualità del dibattito pubblico.
Molti ribatterebbero che se qualcuno non trova spazio per le proprie opinioni su una piattaforma, o se non trova il suo spazio, può sempre farsi un suo spazio alternativo. Ma, online o offline, mettere su una piattaforma o un forum personale è più facile a dirsi che a farsi; e non solo logisticamente, ma anche, cosa forse più importante, in termini di costi sociali e di quella credibilità che viene dal fatto di essere in linea o meno, integrati o meno con le tendenze dominanti. Tanto per fare un esempio, l’epurazione di numerosi commenti di destra portata avanti dai social ha ricevuto il plauso di molti sostenitori della libertà privata e individuale, per i quali si è trattato del magnifico operato della libertà di associazione e del diritto delle piattaforme private di controllare il loro spazio. Per non dire delle critiche farsesche a Parler accusato di sciatteria e di scarso impatto. Se i dettagli del caso e chi vi è coinvolto sono fonte di ironia e ilarità per molte ragioni, si tratta comunque, tra le altre cose, di una testimonianza di quanto controllo può esercitare una manciata di aziende e organi decisionali privati nel determinare l’accesso, il quadro di riferimento e la composizione degli spazi più frequentati e più influenti della società online; in altre parole, questi possono decidere chi lasciar entrare e chi ostracizzare nelle principali arene del dibattito pubblico. Il giudizio di molti su Parler, alla fine, è che è ridicolo. Tutti quelli che vi facevano parte sono stati indistintamente ridicolizzati, come se avessero perso qualunque sembianza di credibilità. A questo punto, che stessero partecipando al dibattito pubblico e al “mercato delle idee”, o che fossero lì per ripetersi gli slogan, non importa più a nessuno.
Certo, ci sono casi precisi in cui è opinione pressoché unanime che il comportamento di qualcuno è tale da richiederne l’espulsione da uno spazio controllato privatamente, che si tratti di ripetute violazioni di norme chiare, refrattarietà agli avvertimenti o altro. Per intenderci, chiedere ad una persona, ad esempio, di uscire dalla vostra casa (per qualunque ragione) non significa fine della libertà di espressione e del dialogo aperto. Dobbiamo però preoccuparci quando certi spazi privati d’interazione sociale, organizzazione e discussione hanno il diritto non solo di salvaguardare l’ordine e il rispetto reciproco, ma anche di filtrare attivamente particolari opinioni, ripulire certi punti di vista politici e bandire determinati argomenti. In principio, questo genere di regolamentazione e gestione culturale può colpire qualunque gruppo che la pensi allo stesso modo. Non dobbiamo guardare solo a certi casi di gruppi estremistici che passano da una piattaforma all’altra o a certe idee razzistiche bandite da Twitter per capire quali sono i pericoli che comporta la concentrazione in relativamente poche mani del controllo delle idee, delle opinioni e dell’interazione sociale. Dopotutto, queste sono prima di tutto aziende, o istituzioni di tipo aziendale. Ci sono sempre condizionamenti umani e interessi costituiti che determinano quali discussioni e opinioni possono vedere la luce.
L’inedita introduzione alla Fattoria degli animali di George Orwell solleva questioni simili. Il saggio dovrebbe servire da ammonimento diretto a chi deride la censura di stato e la repressione delle idee in paesi come l’Unione Sovietica o la Cina senza tener conto di chi ha il potere e come funziona il dibattito pubblico nel proprio paese. Se pensiamo che la pubblicazione di saggi, articoli, libri e altro su carta rappresentava una grossa fetta, se non quasi tutto ciò che alimentava e guidava il dibattito pubblico dell’epoca, è chiaro cosa intendeva Orwell: chi possiede le piattaforme ha potere ultimo di filtrare le opinioni. Non solo decide cosa è pubblicabile e cosa no, ma anche cosa entra a far parte del dibattito pubblico, chi può parteciparvi e dargli forma e chi può accedere ad una posizione di rispetto e influenza. Per certi versi, secondo Orwell, “il pericolo principale per la libertà di pensiero” non è la censura di stato:
“L’aspetto inquietante della censura letteraria in Inghilterra è che si tratta di un fenomeno in gran parte volontario. Le idee impopolari possono essere messe a tacere, e i fatti sconvenienti tenuti nascosti, senza una censura ufficiale.
“Chi ha vissuto a lungo all’estero saprà che certe notizie clamorose, che di per sé meriterebbero nove colonne, vengono tenute nascoste dalla stampa britannica non per l’intervento dello stato ma per via di un accordo tacito per cui ‘non sta bene’ citare quel fatto particolare. La stampa britannica è fortemente centralizzata, perlopiù è proprietà di magnati che hanno tante ragioni per tacere su certi argomenti importanti. Lo stesso tipo di censura velata la ritroviamo poi in libri e periodici, così come a teatro, nei film e alla radio.
“C’è sempre questa ortodossia, questo corpo di idee che i bempensanti presumibilmente accettano senza fare domande. Non [è] esattamente proibito dire una certa cosa o un’altra, ma semplicemente ‘non sta bene’ dirla… Chiunque vada contro l’ortodossia prevalente si ritrova, con sorprendente efficacia, senza voce. Un’opinione decisamente controcorrente quasi mai viene accolta equamente, e questo tanto nella stampa popolare quanto nei periodici di alto livello.” [Divisione in paragrafi mia per facilitare la lettura]
Orwell parlava della Gran Bretagna, e ovviamente non poteva conoscere lo stato dell’informazione e i nuovi paradigmi sociali come l’internet del 2021, ma il punto si applica generalmente al presente e a gran parte della società occidentale: non è solo il potere statale/pubblico ad avere come caratteristica un enorme potere centralizzato da utilizzare per mettere a tacere il dissenso, filtrare l’informazione e disciplinare il dibattito pubblico. Oggi, pur essendoci molte più possibilità di pubblicare un saggio, far circolare un’opinione e altro, rimanere bloccati fuori dal dibattito generale significa essere relegati ai margini e a spazi poco visibili. Con quello che ne consegue in termini di immagine pubblica. Ovviamente, quando si dicono cose che “non sta bene” dire, o si va contro l’ortodossia prevalente – magari semplicemente criticando le decisioni di un organo di controllo privato – la battaglia per l’accesso e la credibilità è scontata.
Siamo chiari, criticare il potere censorio dei privati non significa chiedere che lo stato attui una certa politica, né significa che certi atti censori da parte dei privati sono automaticamente un bene o un male. E ad ogni modo la salute del dibattito pubblico e la cornice in cui si inquadra il dibattito sono fatti più complessi di una semplice dichiarazione in banco e nero sui diritti o su cosa si può e non si può fare. Possiamo apprezzare il fatto che il potere privato contrasti quello pubblico, e il fatto che si equilibri con altre forme di potere privato, ma dobbiamo tenere sempre un occhio sui problemi generati dalle concentrazioni di potere. Dobbiamo capire come funziona il potere privato nel “mercato delle idee”, e come la libertà di pensiero, di credo, di opinione e di parola possono essere sottoposte a controllo e disciplina. È bene non sottovalutare il ruolo cruciale di chi gestisce i grandi spazi e le piattaforme di discussione e socializzazione nell’influenzare il dibattito pubblico e le opinioni in generale. Mantenere un sano dibattito pubblico significa lasciar spazio alla diversità di opinione e ampliare la discussione. Che certe persone e entità abbiano il diritto di utilizzare il proprio potere per influenzare il dibattito pubblico non rappresenta né l’inizio né la fine di ogni discussione degna.