Guida anarchica alla moda
Di Logan Marie Glitterbomb. Originale pubblicato il 4 giugno 2019 con il titolo Only Anarchists Are Pretty: An Anarchist Guide to Fashion. Traduzione di Enrico Sanna.
Negli anni novanta, il movimento anti globalizzazione (aziendale) dominava l’estremismo politico. Dai Girotondi contro il capitale ai Zapatistas alla battaglia di Seattle, infuriava la lotta al capitalismo globale. Infuriava anche la lotta contro le fabbriche del sudore, con manifestanti che prendevano di mira aziende come Gap e Nike per lo sfruttamento del lavoro infantile, la violazione dei diritti dei lavoratori e la distruzione ambientale.
La Gap fece una serie di dichiarazioni pubbliche, negò di essere a conoscenza del problema, e promise di indagare sulla questione, salvo poi farsi beccare nuovamente con le mani in pasta. La Nike si sforzò di tingere di verde la propria immagine riducendo l’impatto ambientale (in alcune zone) con programmi come Nike Grind e prodotti come le scarpe Trash Talk. Ma pare che abbia fatto poco o nulla per migliorare il trattamento dei lavoratori. Tipico capitalismo tinto di verde.
Con la diffusione della fast fashion, i problemi si sono moltiplicati. Si commercializzano continuamente nuovi prodotti a basso costo, con un periodo di vita utile che generalmente non va oltre una settimana. Questo tentativo di stare appresso alla moda fa crescere non solo i consumi, ma anche la spazzatura. L’abbigliamento economico non è fatto per durare, e una tale crescita della domanda di nuovi prodotti non fa altro che amplificare i problemi legati al processo produttivo.
Con la crescita della domanda di abbigliamento economico, molti produttori optano per materiali sintetici come il poliestere al posto di quelli naturali come il cotone. Questa fibra sintetica ricavata dal petrolio è diventata una delle materie prime più usate nell’abbigliamento in tutto il mondo, con un consumo annuale fino a 70 milioni di barili di petrolio, senza considerare i combustibili fossili utilizzati nell’estrazione, produzione e distribuzione. Non essendo biodegradabile, il poliestere impiega da venti a duecento anni a decomporsi ed è tra i principali responsabili dell’inquinamento da microplastica dell’acqua.
Per quanto riguarda il cotone, si fa fronte alla forte domanda con l’agricoltura industriale che solitamente comprende l’uso di diserbanti tossici, pesticidi e fungicidi inquinanti per la terra e per l’acqua. Queste aziende si servono spesso anche di altre pratiche dannose come le monocolture e lo sfruttamento del lavoro. Il lavoro infantile, tutt’altro che scomparso, è cresciuto per soddisfare la crescita della domanda. La fast fashion ha portato ad un peggioramento delle condizioni di lavoro e una crescita degli abusi, e tutto per l’abbigliamento nuovo a basso prezzo.
Sì, ci sono ancora associazioni come Students United Against Sweatshops, ma cosa possono fare oggi contro queste industrie?
Disinvestire da loro il più possibile, boicottare, fare campagne informative, chiedere che anche altre istituzioni disinvestano, tutto ciò può servire la causa. Ma anche disinvestire dallo stato, che appoggia queste entità con aiuti, immunità e normative di favore, ovvero non pagare quelle tasse che finanziano questi comportamenti. Per fare ciò si può ricorrere all’economia informale: donazioni, baratto, monete alternative come i metalli preziosi, le labor notes o le criptovalute. #DivestWallStreet incoraggia le persone a farlo scambiando almeno un dollaro al giorno con una criptovaluta di propria scelta, finché le criptovalute non diventano la moneta principale.
Ma nella lotta alla fast fashion, boicottaggio e disinvestimento sono una risposta parziale. Dobbiamo affrontare la questione di come edificare alternative etiche; la gente non cambia se non ci sono alternative valide. E allo stato attuale queste sono poche. E anche quelle poche hanno problemi. La miglior cosa sarebbe non comprare abbigliamento nuovo ma di seconda mano. Ci sono i mercatini dell’usato, ma anche altro. Clothing swap, vestiario gratis, hand-me-down, free boxes, e magari anche i rifiuti (soprattutto dei mercatini dell’usato): anche questo è un modo per ricavare vestiario gratis. E per di più si contribuisce a ridurre i rifiuti. Invece di buttare via i vestiti che non usiamo più, possiamo darli a qualcuno perché li usi. Si può anche modificare il design di un vecchio vestito: basta un po’ di pratica. Si può rinnovare un vecchio vestito, o farne qualcosa di diverso.
Nella lotta contro la fast fashion, Teemill rappresenta l’avanguardia. La loro filosofia consiste nel cercare di mantenere il ciclo produttivo il più possibile entro il sostenibile. Usando cotone prodotto con sistemi ecologici, ad esempio, mentre per la produzione ci si serve di energia solare o da altre fonti rinnovabili, e si depurano i liquami internamente. Il vestiario è prodotto su richiesta, il che riduce sprechi e sovrapproduzione, ed è commercializzato in confezioni sostenibili di carta fatta con scarti del cotone avanzati dal processo produttivo. I prodotti sono fatti per durare e possono essere restituiti una volta usati, non importa in quali condizioni, per essere riciclati e ricavare nuovo abbigliamento, secondo il modello dell’economia circolare.
È un esempio che sta spingendo la transizione verso nuovi standard ambientalistici nell’industria della moda. Ma è pur sempre un’azienda capitalista strutturata gerarchicamente sullo sfruttamento del lavoratore. Un modello che veda il lavoratore padrone di se stesso ancora non c’è.
Altra azienda che prova a ridurre lo spreco dell’industria della moda è Rent the Runway, che ha scelto la strada della condivisione. Alla maniera delle librerie di strumenti e del ridesharing, Rent the Runway dà la possibilità di affittare un vestito per qualche giorno per poi riportarlo, personalmente o per posta, laddove è stato preso. L’idea di per sé fa poco per scoraggiare la fast fashion, i clienti possono sempre optare per vestiti all’ultimissima moda, ma aiuta a ridurre gli sprechi e fornisce un modello utile a chi cerca un’alternativa.
Nell’ambito delle calzature, Liberty Shoes ultimamente si è fatta notare per il suo design dal tema anarchico. Nata con l’intenzione di farne un calzaturificio agoristico, purtroppo Liberty Shoes opera attualmente tramite un’azienda che produce su richiesta in Italia. Come nel caso di Teemill, però, la produzione su richiesta riduce enormemente gli sprechi in quanto il prodotto è fabbricato dopo l’ordine di acquisto e non esistono scorte invendute. Poco altro si sa dei loro metodi produttivi, se le materie prime sono sostenibili, quali sono le condizioni di lavoro, se usano energia pulita e se depurano i liquami. Certo, nella maggior parte dei casi il consumatore è tenuto all’oscuro di tutto ciò, ed è per questo che un consumo etico è sostanzialmente impossibile con questo sistema. Bisogna però riconoscere che Liberty Shoes punta ad accumulare abbastanza da poter produrre indipendentemente, così da poter controllare meglio le materie prime usate e le condizioni di lavoro, e operare in maniera molto più agoristica.
Quasi un decennio fa, Adbuster batteva Liberty Shoes con le sue scarpe Blackspot. Il loro modello, un clone della Converse fatto con canapa biologica e copertoni di bicicletta riciclati come suola, è reclamizzata come la scarpa più etica mai prodotta. È poi 100% vegana e impiega lavoro sindacalizzato. Il design del modello Unswoosher si presenta molto bene, ma la scelta si limita appunto a quel singolo modello, e la sfida al mercato della Nike ancora non decolla.
Tolta Adbuster, una delle poche alternative estreme viene dai Municipi Autonomi Ribelli Zapatisti del Chiapas, in Messico, dove la comunità zapatista ha messo su un’industria agricola e dell’abbigliamento che esporta ogni anno in tutto il mondo beni per un valore di circa 44 milioni di dollari sforzandosi di mantenere la sostenibilità ambientale. Pur essendo forse più noti per il loro caffè, nei loro negozi online si possono trovare camicie, bluse, cappelli, pantaloncini, bandane, scarponi, borse, scialli e altro.
Alla ricerca della sostenibilità ambientale, gli zapatisti evitano pratiche che richiedono l’estrazione di petrolio, uranio e metalli preziosi e praticano un’agricoltura ecologica che fa a meno di pesticidi e fertilizzanti chimici. Ciononostante, ambientalisti e appartenenti alla popolazione maya Lacandon hanno criticato l’uso di certe zone della giungla Lacandon per l’estrazione di legname, l’agricoltura e gli insediamenti umani. Se, da un lato, gli zapatisti usano pratiche più sostenibili, dall’altro sfruttano territori protetti per le coltivazioni e gli allevamenti da cui ricavano l’abbigliamento che vendono.
Insomma, qualunque sia l’origine dell’abbigliamento, ci sono sempre questioni, ambientali o economiche implicate. Anche quando si acquista abbigliamento prodotto localmente con materiali biologici lavorati in un’azienda che ricicla tutti gli scarti ed è gestita dai lavoratori con tutti i diritti sindacali, anche allora qualche problema si trova.
Come le microfibre che, pur non essendo affatto l’unica materia microplastica diffusa nell’ambiente, sono tra le cause principali di inquinamento delle acque causato dal lavaggio degli indumenti. Altri fattori da considerare sono l’elettricità, l’acqua e gli agenti chimici.
Qualche consiglio: lavare solo quando è necessario, solo a carico pieno e a basse temperature. Dato che la frizione produce residui di microfibre, è bene separare tessuti morbidi e tessuti rigidi prima di mettere la roba in lavatrice, usare solo detersivi liquidi (niente sapindus, niente palline da mettere nel cestello), non lavare mai roba dura come le scarpe e usare la centrifuga a bassa velocità. Alcune lavatrici hanno un filtro per le microfibre, che nelle altre si può installare manualmente. Sistemi alternativi sono le sacche come la Coraball. Altra valida alternativa è il lavaggio a mano o con una sacca per lavaggio a mano, anche se questo non risolve il problema delle microfibre, per cui tutto dipende da come si filtra o si depura l’acqua di scarico. Quanto al detersivo, quello biologico e senza profumazioni ha meno probabilità di contenere inquinanti tossici. Se proprio si vuole la profumazione, si possono aggiungere alcune gocce di oli essenziali alimentari. Evitare l’asciugatrice per la stessa ragione per cui bisogna evitare le centrifughe lunghe. L’alternativa classica è lo stenditoio.
Ognuno di questi esempi può essere ulteriormente sviluppato. Occorre mettere su un’industria dell’abbigliamento basata sull’agricoltura biologica, la sostenibilità, il riuso, la riconversione, la condivisione, il riciclo, il controllo democratico del luogo di lavoro, l’elusione fiscale e l’economia circolare. Ma bisogna anche cambiare il modo di consumare, lavare ed eliminare l’abbigliamento. Ciò che occorre è un’industria dell’abbigliamento che sia più anarchica.