Di Lynn James. Originale pubblicato il 27 novembre 2018 con il titolo On the Limits of “Just Being Polite”. Traduzione di Enrico Sanna.
Poche sono le cose più intrinseche all’essere umano della comunicazione. Attivismi, politica, filosofia riposano saldamente sulla nostra capacità di spiegarci. Jürgen Habermas, in Etica del Discorso, arriva a porre la capacità di comunicare alla base della moralità e della libertà. Filosofie a parte, il modo in cui dialoghiamo è importante. Sia le parole che la struttura del discorso hanno implicazioni etiche. In questo saggio cercherò di spiegare le due cose nel contesto dell’attivismo radicale di sinistra.
Voglio parlare in particolare delle regole del discorso imposte in spazi attivistici e le conseguenze negative di tali regole, come l’emergere di gerarchie sociali basate sul controllo linguistico. Un esempio particolarmente illustrativo di tali dinamiche viene da Max Stirner, anche se Stirner in sé non c’entra. Negli spazi attivistici ci sono regole che, pur originate da buone intenzioni, possono essere applicate con intenti tossici, per creare una struttura in cui la conformità alle norme del discorso diventa l’aspetto più importante. Le norme in questione limitano la possibilità di dialogare e capirsi. Se davvero vogliamo liberarci dell’oppressione, dobbiamo partire da dentro i nostri spazi, non solo da fuori.
Se mi avete seguito fino a qua, probabilmente conoscete leftbook. Per chi non lo sapesse, si tratta di gruppi su Facebook dedicati alle comunità condivise e alla discussione di argomenti e meme di sinistra. In uno di questi gruppi mi è capitato di trovare una regola che vietava la parola “spooky” (spirituale, problematico, pauroso, ndt) perché considerata un’offesa razzista.
Eh?
Mi spiego. Max Stirner, filosofo tedesco dell’ottocento, dedica ampio spazio alla relazione tra individualismo e società. Pone in risalto il modo in cui certi costrutti sociali sono inconsistenti con espressioni come “L’uomo non è una persona, ma un ideale, uno spirito (spook).” Una migliore traduzione letterale sarebbe “entità superiore”, ma il senso non è lo stesso: Stirner vuole dire che i costrutti sociali esistono solo nella mente, non sono ontologicamente solidi. Stirner è conosciuto soprattutto in ambienti anarchici o di sinistra, al di fuori dei quali appare oscuro. Citare Stirner assieme alla parola spook è diventato una sorta di meme in leftbook, soprattutto perché rappresenta un elemento interessante, esoterico della filosofia politica. La parola spook poteva essere usata per qualunque cosa e chiunque avrebbe capito che si trattava essenzialmente di un costrutto sociale. Era un po’ meme e un po’ parte del discorso, ma insomma innocente.
Ma un giorno qualcuno ha scoperto connotazioni diverse della parola “spook”. Rivolto ad una persona di colore, “Spook” può essere offensivo. Ammetto che la parola “spook” viene usata in questo senso da persone razziste. In certi contesti, è sicuramente un’offesa. In questo caso particolare, i moderatori avviarono un discorso sull’opportunità o meno di definire certi temi socio-politici con l’aggettivo spooky, e sulla possibilità di bandire chi lo usa. Il gruppo decise che le parole “spook”, “spooky” e “spooks” erano da bandire, e che le persone che le avessero utilizzate avrebbero dovuto fare autocritica. In caso contrario, sarebbero stati banditi dal gruppo. La cosa si faceva spooky.
La cosa può sembrare ragionevole o assurda, secondo il vostro punto di vista. Se pensate che sia ragionevole, magari ragionate come certi sostenitori del politicamente corretto: queste restrizioni non urtano nessuno e rispettarle significa semplicemente fare “correttezza”. Dopotutto, non si è obbligati ad iscriversi ad un gruppo di Facebook. Segui le regole sennò vai altrove.
Ma ci sono limiti alla correttezza.
In leftbook i termini banditi spesso vanno oltre i limiti dei termini comunemente riconosciuti come offensivi. A volte è un bene: chi lotta contro il dominio e il potere gerarchico non dovrebbe usare un linguaggio offensivo. Se vogliamo combattere il potere dobbiamo partire dal linguaggio. È assurdo dire che le parole non possono ferire, e non sarò certo io a dire che se qualcuno se la prende per un’offesa è perché ha la puzza sotto il naso. In questi casi, la cautela non è mai troppa. Ci sono parole che non vengono riconosciute come offensive da decenni. Ma conta anche il contesto. Nessuno nel gruppo aveva problemi ad usare la parola “spook” finché qualcuno non ha fatto notare che poteva avere altre connotazioni (razziste). Nessuno intendeva “spooky” in senso razzistico. Non c’era assolutamente alcun nesso tra la parola come la intende Stirner e come viene intesa in senso razzistico. Il nesso è nato solo dopo che qualcuno ha fatto notare l’ambiguità. I membri del gruppo usavano la parola “spooky” in un contesto che niente aveva a che fare col razzismo. Chi non era d’accordo con la decisione è stato bandito dal gruppo, e chi sosteneva e applicava questo bando è stato elogiato come persona sveglia e particolarmente antirazzista.
Quando l’attivismo porta agli estremi la purezza politica, la “correttezza” ha toccato i suoi limiti. Oltre a “spooky”, erano banditi termini come imbecille, ritardato, pazzo, imbranato e stupido. Parole bollate come abiliste. In alternativa, erano proposti termini come “sciocco” o simili. Su Twitter, in certe comunità di sinistra c’è chi dice che le persone dall’identità non-binaria (che non si sentono né uomo né donna, ndt) non dovrebbero usare l’acronimo “NB” (non black, ndt) perché viene usato da persone di colore non-nere. E chi è polirapporto non dovrebbe usare la parola “poly” perché viene usata dai polinesiani. L’idea alla base è che l’uso di certi termini offende determinate persone. Qui, non solo si creano comunità privilegiate, ma si crea un’idea nebulosa di offesa che blocca il discorso.
La struttura di quelle attività online che si occupano di giustizia sociale genera facilmente una sorta di “gara a chi è più offeso”, che a sua volta produce capitale sociale. Inizialmente, potrebbe sembrare normale che i luoghi d’incontro di sinistra tendano a creare una gerarchia con in cima le persone più offese, dopotutto viviamo in una società oppressiva. Chi è più colpito non dovrebbe avere più voce ed essere il meno oppressivo? E anche molto colto e il più politicamente corretto? Forse. Questo non è il luogo in cui elencare norme organizzative. Posso dire, però, che una gerarchia basata sul grado di “offesa subita” può giustificare una cultura fortemente tossica che esclude chi si avvicina al movimento. Credo, insomma, che questo “internet di sinistra” incentivi la nascita di regole interne sempre più oscure e di strutture instabili e politicamente indifendibili.
Questo non significa che le parole non possono far male.
Occorre scoprire i lati problematici delle espressioni che usiamo. È molto importante analizzare le parole che usiamo se proprio noi radicali non vogliamo apparire oppressivi. Ma la stessa struttura oppressiva può riprodursi ad un livello più basso. Quando non si fornisce una spiegazione rigorosa del perché si devono eliminare certe parole dal proprio vocabolario, i gruppi attivistici lasciano che si dichiari il “danno causato” senza doverlo dimostrare. Anzi, diventa tabù chiedere perché è stata bandita una parola d’uso comune. E non solo non si esige una giustificazione del bando, ma sfidare tale bando può portare all’espulsione dal gruppo. Ecco allora che uno esita a sfidare il dogma. E, ciliegina sulla torta strutturale, viene premiato chi “strilla” alla parola offensiva. In genere gli viene riconosciuta cognizione di causa, e talvolta, soprattutto su internet, riceve una posizione di potere nel gruppo. Magari diventa anche moderatore per aver fatto una scoperta particolarmente scioccante.
Queste strutture non incoraggiano il dialogo. Neanche l’apprendimento. Dicono solo: ascolta e approva. Le regole ad approccio unico, applicate al discorso, ignorano il contesto in cui si usano certi termini e limitano le possibilità espressive. Chiedendo un coinvolgimento profondo solo per stare dietro alle regole che cambiano in continuazione, questi spazi scoraggiano la partecipazione e incoraggiano la conformità a scapito della libertà. La contestazione è punita o con l’umiliazione pubblica o con il bando. Si viene cacciati per aver posto una domanda e premiati per aver invocato la censura. Avviene così: Qualcuno sostiene che la comunità X non ama la parola Z. Qualcuno stabilisce che Z è problematica e dunque da evitare. Chi pone in dubbio la decisione viene censurato come persona problematica. I membri del gruppo, che a questo punto hanno interiorizzato il sistema, diffondono la cosa. La persona che ha sollevato per prima la questione guadagna un seguito, attenzione e capitale sociale. Anche capitale monetario, se si tratta di una questione sentita. Qualcuno viene bandito, qualcuno viene cancellato e qualcuno viene premiato. Ripetuto mille volte, tutto ciò porta ad una struttura sociale basata su chi censura di più, ed ecco fatto l’attivismo online.
Magari non è una tragedia. Dopotutto, questi spazi rappresentano una nicchia, ed essere derisi online non è il peggio che può capitare. Ma proprio perché si tratta di una nicchia, la punizione, l’esclusione di una persona perché problematica acquisisce serietà. Porre in dubbio un’autorità locale può portare a perdere amici in carne ed ossa. E questo allontana le persone dall’attivismo. Portato agli estremi, l’attivismo diventa molto tossico. Si ha paura di porre domande, e talvolta ci si prostra pubblicamente in elaborati esercizi di autocritica. Tolte le persone che ne traggono una posizione di vantaggio, nessuno ci guadagna. Ci sono gruppi e pagine su Facebook dedicati alla discussione delle assurdità che accadono su leftbook. Si parla di uscire dai gruppi perché è come camminare sulle uova.
Non sono il primo a parlare di queste questioni. Frances Lee ha scritto alcuni importanti articoli in proposito. Nel suo ampiamente condiviso “Excommunicate Me From the Church of Social Justice” scrive:
A scorrere il mio newsfeed a volte mi sento preso a bastonate da qualche predicatore pazzo. So che molti commenti sono un tentativo di disciplinarmi in modo da essere un buon attivista e membro del gruppo. E quando non seguo i dettati arriva la punizione. Per aver detto, fatto, creduto le cose sbagliate si può essere svergognati, sgridati, isolati, e si può vedere la propria reputazione svergognata.
Sentimenti simili li troviamo in “Why I’ve Started to Fear My Fellow Social Justice Activists”:
Mi preoccupano anche i controllori del linguaggio della giustizia sociale, ci vedo un’arma contro quei membri della comunità che non si adeguano subito ad un lessico in rapida evoluzione. Termini come “oppressione”, “controllo del tono”, “sforzo emotivo”, “diversità” e “fedeltà” sono utilizzate in maniera particolare, così da attirare l’attenzione sulla condizione di una parte messa in minoranza. Ma sono anche termini il cui significato può essere manipolato in modo da attaccare e escludere.
Lee è però ottimista riguardo il futuro dell’attivismo.
Controllare il proprio linguaggio, soprattutto quando non si è convincenti, non è semplice “correttezza”. Richiede un’energia interiore. Significa anche doversi aggiornare sul linguaggio, su ciò che è permesso e ciò che non lo è. Ciò che vale oggi, domani può essere bandito. Le “regole” di questi spazi cambiano continuamente, richiedono il coinvolgimento di tutti e non possono essere messe in questione. Un gruppo ha due regole che appaiono in conflitto tra loro. Primo, se lanci un falso allarme vieni bandito. Secondo, chi mette in questione l’allarme di qualcun altro viene bandito.
Questo non è il radicalismo che voglio. Forse non è neanche libero. Data l’eccessiva cautela, questo attivismo ignora quegli elementi contestuali del discorso e crea un ambito così esigente e rigido che anche solo esserne coinvolti diventa un peso. Se esiste un legame sostanziale, e contestualmente valido, tra il linguaggio e i suoi effetti nocivi, è meglio evitare quel linguaggio. Dall’altra, richieste eccessive riguardo il linguaggio ovviamente allontanano le persone che si sentono poco sicure e a disagio. Se è un pretesto per criticare entrambe le parti senza spiegare in maniera esauriente cosa è che rende oppressivo un certo linguaggio, va bene. Più o meno. La risposta non è poi così complicata, e ciò di per sé fornisce un punto di partenza. Né i divieti a tappeto né negare sprezzantemente che esistono termini offensivi serve a costruire un dialogo libero. Finché cerchiamo la libertà è nostro dovere, verso noi stessi e gli altri, cercarla in tutto quello che facciamo, dalla fine dello stato alla ricerca di un dialogo che sia libero, non oppressivo e sincero.