Di Enrico Sanna. Originale pubblicato il 12 dicembre 2017 con il titolo Don’t Sell the Red Gold Away. Traduzione di Enrico Sanna.
La mia città natale, San Gavino Monreale, in Sardegna, è il più grande produttore italiano di zafferano. Lo zafferano è una tradizione plurisecolare. I primi bulbi (la spezia si estrae da un fiore) si coltivarono attorno al XIII secolo. Lo zafferano viene dal Medio Oriente. Un bel po’ di strada in un’epoca in cui occorrevano due giorni per andare al villaggio vicino.
La mia famiglia non ha mai prodotto zafferano. Ricordo una volta, da bambino, di aver partecipato alla pulitura dei bulbi. Questo è stato tutto il mio rapporto con lo zafferano allo stato puro. Però conosco molte persone che producono zafferano.
Il viola è diventato il colore simbolo della città. Alla fine dell’autunno, quando c’è la fioritura, i campi diventano improvvisamente viola. Lo zafferanno fiorisce tutto in una volta. Noi lo chiamiamo “su groffu”, che in sardo vuol dire “la piena”, o “l’affollamento”.
Ho assistito alla nascita della sagra locale, da giornalista, circa un quarto di secolo fa. Si voleva uscire dalla dimensione comunale. Volevamo trasformare una tradizione in un business. Volevamo un nome. Un marchio riconoscibile. Una rete di distribuzione. Ci credevo. Oggi non più.
Non è che ho perso la speranza. Semplicemente, spero che non accada. Spero che quel sogno non si realizzi. Sto ripensando al modo in cui potrebbe realizzarsi.
Perché potrebbe accadere che arriveranno stranieri da fuori, e porteranno carte per farvele firmare. Arriverà una multinazionale senza faccia con accordi vincolanti da firmare e assegni invitanti da compilare. Arriveranno con le perline colorate. Certo il vostro zafferanno dovrà conformarsi ai desideri sintetici creati dai loro maghi pubblicitari. Vorranno dirigere la baracca, sennò niente affari. Tratterete con persone dal sorriso facile a cui non importa nulla del vostro zafferano.
E sorridendo con i loro sorrisi preconfezionati, vi diranno che siete liberi di decidere ogni cosa. O quasi. Sarete liberi di scegliere il marchio. L’immagine simbolo. Come fare la confezione. Sarete ospiti speciali in tivù la domenica all’ora di pranzo. Sarete gli ospiti d’onore. Vi lasceranno anche raschiare il fondo della saccoccia vuota. I soldi a loro, a voi la zappa.
E poi verranno a riprendervi in casa, mentre con la famiglia e gli amici stretti pulite i fiori dello zafferano, e faranno della vostra famiglia un presepe commerciale. E poi vorranno sapere delle vostre tradizioni e dei vostri santi. E toccheranno tutto. E tutto quello che toccheranno si trasformerà in un feticcio del loro dio freddo chiamato denaro.
Dopotutto, quando sorseggiate una tazzina di caffè o spezzate un quadrato di cioccolato con l’amata non state arricchendo le popolazioni che coltivano il cacao o il caffè da millenni. I vostri soldi vanno alle multinazionali che come locuste piagano il Messico, il Sudamerica o l’Africa Occidentale. I vostri soldi vanno agli azionisti, ai consiglieri d’amministrazione. E ai governucci locali che, tra parentesi, sono lì per proteggere il potere aziendale quando i contadini si ribellano.
Grossi capitali corrono per il mondo alla ricerca di qualcosa da cui estrarre valore. Non importa cosa, purché si possa pompare un po’ di valore. Può essere petrolio ma anche noci. In molti, troppi casi la produzione fisica avviene nei luoghi della povertà e della fame, soprattutto in paesi sottosviluppati governati da governi corrotti. La Nike ha fatto da apripista di quel genere di azienda transnazionale che realizza profitti record agendo da intermediario.
Più di quarant’anni fa, la Nike cominciò ad appaltare la produzione alle fabbriche dello sfruttamento in Cina, Corea del Sud e Taiwan. I poveracci erano pagati una miseria per produrre calzature e indumenti marchiati “Nike”, che poi erano rivenduti a ricchi consumatori ad un prezzo molto più alto. Questo schema sta diventando il modo normale di produzione per molte aziende transnazionali, che fin troppo spesso sono poco più che marchi commerciali. Dalle scarpe della Nike agli iPhone della Apple, la produzione è appaltata a fabbriche che spremono sudore.
Tutto questo accade dentro il guscio protettivo di normative statali che fanno sì che la ditta non sia responsabile delle condizioni di lavoro. Questa è la ragione principale che ha portato l’industria manifatturiera a spostarsi nei paesi in via di sviluppo, soprattutto in Asia, negli ultimi trent’anni. Non esiste alcun “miracolo economico cinese”. Le aziende cercano paesi poveri affamati di lavoro, paesi dove i lavoratori hanno tutele scarse o nulle, dove governi fidati guardano altrove.
Dunque, non svendete l’oro rosso. Non svendetevi. In questa giungla popolata da mostri giganti occorre tempo e pazienza per mettere su un’attività senza cedere alle allettanti promesse di un successo facile. Ma se ci riuscite, sarà un successo che dovrete solo a voi stessi.