[Di Chris Shaw. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 15 marzo 2017 con il titolo Basic Income as a System of Control. Traduzione di Enrico Sanna.]
“Il reddito di base, sia a nord che a sud, varia secondo come lo inquadriamo. È una sorta di elemosina dei ricchi, o un diritto per tutti?”[1]
L’osservazione qua sopra contiene sia la promessa che i rischi potenziali di un reddito universale di base, ovvero un pagamento in contanti incondizionato, su base individuale, senza requisiti di reddito o di impiego. Molti commentatori hanno esaltato i possibili cambiamenti offerti dal reddito di base, che eliminerebbe la necessità di lavorare e trasformerebbe il salario in uno strumento di politica sociale e non in una semplice conseguenza del mercato del lavoro. Il reddito di base diventerebbe un salario sociale, il che presuppone la comprensione del minimo sociale.
È facile cedere all’idea di un reddito di base in un mondo in cui il mercato del lavoro non cambia, con salari bassi che si ostinano a non adeguarsi alla recente crescita della produttività. Potrebbe anche contrastare lo spettro della disoccupazione tecnologica. Chi fa politica potrebbe far passare l’immagine di un futuro distopico in cui le macchine sono controllate da una classe capitalista transnazionale di investitori e aziende megalitiche, che monopolizzano ulteriormente l’economia e opprimono un lavoro salariato sempre più precario.
Per la classe politica, che generalmente preferisce lo status quo, il reddito di base rappresenta un più accettabile miscuglio di utopismo e politica tecnocratica realistica. Per alcuni estremisti, è l’occasione per spingere la società in una direzione più post-capitalista, o ad opera di nuove istituzioni basate sul mutualismo democratico o riconfermando il diritto ai beni comuni. “Un reddito di base potrebbe eliminare quella mentalità della scarsità che è penetrata così in profondità nella nostra cultura, liberandoci dall’imperativo della competizione e permettendoci di essere più aperti e generosi”[2]: così pensano i sostenitori più in vista del reddito di base.
Ma questi ultimi tralasciano alcune questioni fondamentali. Non tengono conto del fatto che il capitalismo, essendo un sistema generalizzabile di accumulazione del capitale per generare profitto, è trincerato al punto che è difficilissimo combatterlo. Processi e relazioni di capitale riguardano tutti gli ambiti della vita: dalle relazioni sociali in famiglia all’assistenza sociale. Un esempio è il New Deal, le cui prestazioni sociali ruotavano attorno al lavoro considerato “socialmente utile” (ovvero, facilmente utilizzabile per progetti governativi e particolari interessi aziendali). Allo stesso modo, il New Deal integrò i sindacati nella cornice nazionale ma non per rivoluzionare in senso sociale le mire dello stato, bensì per istituzionalizzare la politica salariale centralizzata soggetta a particolari sindacati [3]. Stato sociale e rappresentanza dei lavoratori giocarono un ruolo importante nell’edificazione del modello produttivo fordista (di cui il New Deal fu parte significativa). Contribuirono alla nascita di uno standard consumistico generalizzabile, in cui si producevano beni unicamente per il consumo di massa, e di una generale equivalenza tra prodotti di produzione di massa.
Tutto questo dimostra come i movimenti radicali, dai sindacati dei primi del novecento agli attuali sostenitori del reddito di base, siano cooptati facilmente. Antonio Gramsci chiamava questa tendenza trasformismo, ovvero la convergenza politica attorno ad un punto centrista di intesa. La legittimità di uno stato si basa in parte sulla capacità di integrare, moderandoli, i movimenti radicali interni alla società civile, come i sindacati, l’aiuto reciproco in varie forme e diverse altre forme di governance volontaria che fanno parte della vita quotidiana. Nessuno stato può sopravvivere se viene visto come una semplice struttura coercitiva. O crolla e viene sostituito da una forma di autogoverno pluralistica della società civile, oppure precipita nell’autoritarismo. La legittimazione data dalla gestione statale della quotidianità e dalle istituzioni integrate è essenziale al funzionamento pieno dello stato. Il reddito di base potrebbe essere facilmente cooptato in questo ambito, come è capitato ai sindacati negli anni Quaranta. Il capitale, come relazione sociale di potere, si serve regolarmente dello stato e dei suoi meccanismi migliorativi per introdurre relazioni capitalistiche in ambiti non capitalisti (e anche in aree resistenziali), come l’assistenza sociale e la rappresentazione sindacale.
La trasformazione neoliberista dello stato sociale in workfare, come i lavori socialmente utili, a cui si aggiunge la crescente precarietà e “flessibilità” nella nostra vita lavorativa, è una caratteristica determinante nello sviluppo di una forma di produzione post-fordista. Il guadagno ottenuto con l’automazione si sta centralizzando sotto il controllo aziendale tramite le leggi sulla proprietà intellettuale, che trasferiscono nelle mani del capitale privato quel bene comune che è la conoscenza e la scienza. Questo è anche un nuovo modo di integrare le istituzioni sociali nell’ambito di un regime di crescita neoliberista, come accadde a Bretton Woods con gli aggiustamenti al welfare aziendale. Il lavoro diventa così flessibile e precario[4]; i lavoratori agiscono in appalto per aziende che non possiedono più i mezzi di produzione, ma che mantengono il controllo dei mezzi di conoscenza e di informazione, e del capitale finanziario.
Il reddito di base potrebbe essere assorbito da questo regime di crescita neoliberista se si permettesse un’ulteriore centralizzazione del controllo sulla produzione e il consumo. L’aumentata flessibilità del lavoro, così come la concentrazione crescente sul lavoro qualificato in ambito tecnologico e sui lavori a paga bassa nei settori commerciale al dettaglio e dei servizi, ha portato ad uno standard di consumo generalizzabile. Questo porta alla stratificazione di un nuovo sistema di classe fatto di manager tecnologici, una classe capitalista transnazionale, e un generale sottoproletariato formato da lavoratori precari in molti settori dell’economia internazionale. C’è una ragione se declina quella che gli economisti chiamano la “partecipazione alla forza lavoro”. Probabilmente, il picco nell’impiego l’abbiamo raggiunto nel 2000. Ora semplicemente occorre meno lavoro per fabbricare le cose che ci occorrono[5]. Con il calo della partecipazione alla forza lavoro, lo sviluppo di uno standard di consumazione è diventato più arduo e la forza lavoro più flessibile nel suo ruolo partecipativo. I poveri sono quelli che stanno peggio perché su di loro si accumula sempre più debito privato, mentre le occasioni lavorative diventano sempre più precarie.
Questi lavoratori precari e a basso reddito sarebbero i beneficiari primi del reddito di base. Quest’ultimo può mitigare molti inconvenienti della flessibilità lavorativa, fornire una rete di sicurezza a chi è fortemente indebitato, e mantenere il consumo a livelli che consentano la produzione di beni nell’economia internazionale. Come spiega la citazione introduttiva, il reddito di base assume diversi significati. Nel sistema attuale, il reddito di base dipende da un’economia centralizzata, a paga bassa, per la produzione di conoscenza. Il guadagno derivante da automazione e tecnologie non può essere distribuito adeguatamente e lo stato sociale diventa garanzia di un reddito di base. Questa garanzia diventerà rigida e potenzialmente universale quando le nuove forme di scambio proficuo e l’imprenditoria di se stesso (vedi Uber e AirBNB) diventeranno condizioni stigmatizzanti. Solo in queste circostanze si può realmente accedere alla possibilità di consumare, entrando così a far parte del processo economico più ampio.
Perciò questo solleva questioni riguardanti l’istituzionalizzazione del reddito di base. Una cosa è vedere il reddito di base come una proposta estrema che rovesci il capitalismo. E un’altra è riuscire ad istituzionalizzare questa struttura di valore creando sistemi di governance pluralistica che possano metterlo in pratica. Apparentemente, il problema principale è la concentrazione sul distribuendum, per cui la distribuzione delle risorse (teoricamente tramite strutture centralizzate statali) è la principale variabile assiomatica nel determinare giustizia e correttezza[6]. Ciò ignora fondamentalmente le strutture di valore che informano questa iniziale distribuzione dei beni, e la sua ulteriore ridistribuzione relativa al negoziato e all’istituzionalizzazione politica. I propositi alla base della ridistribuzione, e il genere di governance che la decide e la politicizza, sono tanto importanti quanto la distribuzione stessa.
Se si vuole edificare una società con una parvenza di valori anarchici nella distribuzione del potere economico e politico, non ci si può concentrare unicamente sulla distribuzione dei beni. Come visto nel caso della cooptazione dei sindacati nel New Deal, un sistema che punti unicamente al distribuendum potrebbe riprodurre le strutture capitalistiche, mitigando gli eccessi peggiori ma senza arrivare mai alla questione fondamentale del lavoro salariato e dello sfruttamento. L’assenza di un adatto nesso distributivo che controlli il reddito di base diventa problematico quando si considera il suo potenziale radicale. Chi controlla il meccanismo di distribuzione e trasferimento? Quali forme di reddito dovrebbero essere ridistribuite? Come si può replicare la distribuzione, e come si possono minimizzare le sue potenzialità coercitive?
Una risposta esauriente a queste domande va oltre lo scopo di questo saggio, ma vale la pena abbozzare qualche idea preliminare. Primo, il miglior metodo per raccogliere fondi da destinare al reddito di base deve nascere dallo ristabilimento delle risorse collettive (terra, conoscenza, infrastrutture di vario tipo) come bene di tutti; in questo modo i fondi verrebbero dalla socializzazione della rendita derivante dalla sua privatizzazione iniziale. Lo stesso concetto si ritrova nell’idea di una tassa sul valore della terra, così che la rendita, che solitamente e ingiustamente va nelle mani dei latifondisti e dei proprietari terrieri sostenuti dallo stato, possa essere resa alla società e la terra riconosciuta come bene comune che non può appartenere a nessuno in particolare. Un simile sistema di trasferimento potrebbe applicarsi ad un regime in cui chi possiede capitali privati e vuole appropriarsi di queste risorse di proprietà collettiva per i propri fini, può farlo pagando un tributo. Dando un prezzo economico alle esternalità negative prodotte tramite sussidi pubblici, si può contrastare il potere delle aziende megalitiche e sviluppare un’economia basata su beni comuni in cui il potere resti nelle mani della popolazione.
Secondo, molto importante è anche la questione delle istituzioni. Molti suoi sostenitori considerano il reddito di base un sostituto dell’attuale stato sociale. Ma è un errore gravissimo lasciare questa riforma, ritenuta radicale, nelle mani dello stato centralizzato. Come dimostrato dall’edificazione e dallo smantellamento dello stato sociale dopo la Seconda Guerra Mondiale, lo stato nella sua forma attuale è uno strumento del capitale, cosa che rende lo stato sociale soggetto ai cambiamenti nella struttura normativa del capitale. Invece di puntare sullo stato come luogo del cambiamento, occorre un insieme di regole e strutture costitutive[7] che producano metodi di governance che rientrino in strutture di valore simili a quelle di una mutualità democratica. È un concetto simile all’eguaglianza democratica di Anderson[8] e all’interpretazione della comunità politica fatta da Cohen[8]: entrambi sono concetti relazionali di una teoria egalitaria, e sono pluralistici e a più parti nella distribuzione a rete. In questo senso, le istituzioni sono luoghi di scambio reciproco, tanto economico quanto politico, che incoraggia le relazioni orizzontali e la possibilità di unirsi verticalmente in federazione.
La mutualità democratica è contenuta nell’idea di metagovernance riflessiva[10] che combina gli effetti distributivi dei mercati con forme di rifornimento e sistemi pianificatori decentrati, creando così un’economia senza aggettivi. Tra gli esempi, il sistema costituito da casse di risparmio e fondi comuni della cooperativa Mondragon, le forme di gift-economy attuate dal movimento Piquetero, oltre a quelle forme decentrate di budget partecipato e di assistenza sociale (Bolsa Familia e il sistema di pianificazione delle spese di Porto Alegre) in Sud America[11]. Concettualmente, l’idea di Chris Cook riguardo l’applicazione della legislazione americana e inglese sulle public company ad una governance basata su una blockchain può portare le nuove conoscenze e le nuove infrastrutture tecnologiche di internet verso un sistema pubblico di governance che controlli la distribuzione di questi beni comuni e il tasso di rendita relativo alla loro appropriazione privata[12]. Di sistemi di governance decentrati ha scritto anche Kevin Carson:
“Man mano che stato e aziende si avvicineranno all’esaurimento fiscale ritirandosi dall’ambito sociale, datori di lavoro e reti di protezione a base statale verranno sempre più sostituiti da progetti coabitativi basati su famiglie estese, multifamiliari o di vicinato, da microvillaggi, eccettera, così da poter mettere in comune redditi, costi e rischi. Oppure saranno sostituiti da società di amici, da mutue, da gilde che forniscono sussidi di disoccupazione e assistenza sociale per i lavoratori autonomi. La tipica persona di questa società potrebbe essere nata in un complesso multifamiliare o in un minivillaggio e avere diritto ad un minimo di sussistenza, accesso a strumenti o alle terre produttive in cambio della contribuzione di una modesta quantità di prestazioni (se capace) alle necessità comuni”[13].
Il reddito di base, essendo qualcosa che allontana la società dalle strutture di valore neoliberiste, è compatibile tanto con la mutualità democratica e i sistemi di metagovernance riflessivi quanto con lo stato corporativo. Il reddito di base può essere importante nella trasformazione della società a metalivello, agendo da complemento alla politica insurrezionale, un sistema sviluppato fuori dalle reti dello stato, e una componente di forme emergenti di governance multiscalare in reti distribuite, città e regioni. Ma la natura contraddittoria del reddito di base significa anche che potrebbe essere captato dagli interessi capitalisti e statalisti: dunque è un concetto imperfetto in materia di politica discorsiva radicale. Fondamentalmente, il reddito di base dev’essere considerato una riforma in un’alternativa radicale comprensiva che dia origine ad un mondo di governance pluralistiche e ad un’opposizione alla globalizzazione capitalista. La questione, in fondo, è se lasciare che a gestirlo siano le strutture di distribuzione e trasferimento statali o quelle cooperative sviluppate organicamente dal basso.
Note
[1] Hickel, J. https://www.theguardian.com/global-development-professionals-network/2017/mar/04/basic-income-birthright-eliminating-poverty
[2] Hickel, J. https://www.theguardian.com/global-development-professionals-network/2017/mar/04/basic-income-birthright-eliminating-poverty
[3] Kolko, G. http://www.counterpunch.org/2012/08/29/the-new-deal-illusion/
[4] https://c4ss.org/content/47925
[5] Carson, K. https://c4ss.org/content/40806
[6] Schemmel, C. Distributive and Relational Equality, 2012
[7] Sinclair, T. Let’s Get it Right This Time! Why Regulation Will Not Solve or Prevent Global Financial Crises, 2009
[8] Anderson, E. What is the Point of Equality?, 1999
[9] Cohen, G.A. Incentives, Inequality, and Community, 1991
[10] Jessop, B. Governance and Metagovernance: On Reflexivity, Requisite Variety, and Requisite Irony, 2002
[11] Houtart, F. https://www.opendemocracy.net/fran%C3%A7ois-houtart/citizen-revolutions-in-latin-america
[12] https://thelibertarianideal.wordpress.com/2016/04/09/chris-cooks-p2p-foundation-email-collection/
[13] Carson, K. https://c4ss.org/content/40806