Di Qianzi. Titolo originale: Capitalism as Religion and The Myth of Capitalist Nature, 9 marzo 2021.
Breve analisi della critica di Walter Benjamin
“Nel capitalismo percepiamo una religione; il capitalismo serve sostanzialmente a placare le ansie, i tormenti e le agitazioni a cui le cosiddette religioni offrivano una risposta.”
“Il capitalismo è forse il primo caso di culto che genera senso di colpa invece di offrire redenzione.” ~ Walter Benjamin, Capitalismo come religione
“Il mito non è la negazione delle cose, ma serve, al contrario, a parlare di esse; serve semplicemente a purificarle, a renderle innocenti, a dar loro una giustificazione naturale ed eterna, a dar loro una chiarezza che non deriva da una spiegazione ma dall’asserzione di un fatto.” ~ Roland Barthes, Mitologie
L’attuale sistema di dominio, oppressione, emarginazione, alienazione e spoliazione che chiamiamo capitalismo può essere illustrato e descritto in tanti modi. Per Walter Benjamin, il capitalismo può essere visto come sistema religioso, un sistema in cui l’individuo partecipa a rituali che non hanno né dottrina né teologia, ma che comunque costringono l’individuo a fare “offerte” al fine di vedere soddisfatte le proprie aspirazioni materiali. Questo ossequio cultuale nei confronti della merce produce la terminologia capitalistica: il toro, l’orso, il prezzo della domanda, le tendenze di mercato, gli azionisti, i titoli, l’orario di lavoro e così via. Nel capitalismo, ognuno di questi termini ha un significato particolare, si rifà ad una lettura specifica dei “meccanismi interni” del capitalismo ad un livello cultuale che si rinnova ad ogni espressione di ossequio e partecipazione. Forse in maniera più esplicita rispetto all’oggetto della circolazione e della transazione, il denaro cartaceo, ovvero la moneta fiduciaria, non è che una delle manifestazioni fisiche dei talismani cultuali capitalistici, una manifestazione che oggi, con la digitalizzazione e l’informazione istantanea, sembra aver perso un po’ del suo smalto. Ciononostante, l’insieme di queste pratiche diventa un’imperativo, un atto da compiere, la ritualizzazione di un processo alienante che consiste nel privare il lavoratore di ciò che produce. Si tratta del rituale del lavoro e della fatica, dell’etica del lavoro protestante in tutta la sua liberalità.
Illustrandolo e interpretandolo come una religione, Benjamin riesce a porre in risalto uno dei concetti chiave del capitalismo: l’impatto sulla psiche. Il senso di colpa fermenta e diventa universale (reificazione dei processi come realtà quotidiana del funzionamento della società), cresce sulla convinzione che l’esproprio è meritato, conduce a una dannazione inespiabile, perché il capitalismo è una religione che crea senso di colpa. È il concetto calvinista di depravazione totale reso manifesto, senza una speranza di espiazione o redenzione. Benjamin prende Max Weber e lo ribalta.
È qui che possiamo servirci degli strumenti della semiotica, lo studio dei segni (parole, immagini, oggetti, gesti e così via), per fare luce su concetti chiave delle teorie benjaminiane sul capitalismo e sul mito di una natura umana essenzialmente capitalista, un mito difeso dai più strenui sostenitori del capitalismo. L’idea del mito la ritroviamo in Mitologie di Roland Barthes, una raccolta di scritti attorno allo sviluppo culturale e alla ricostruzione fordista della Francia postbellica. Un mito che possiamo definire sistema semiotico di second’ordine, per cui i segni esistenti diventano nuovi significanti in relazione al significato. È un modo di costruire un significato a cui può essere attribuita grande importanza presso una moltitudine di individui in una data società.
Un esempio classico lo si vede in questa copertina. Qui vediamo una persona di colore in uniforme francese che saluta un ipotetico comandante, o una bandiera, insomma è una dimostrazione di patriottismo. L’immagine è il significante che connota il mito dell’impero francese, multiculturale e multirazziale, ma soprattutto fedele all’identità nazionale francese. Qui il mito ha il compito di cancellare completamente il contesto storico e strutturale, naturalizzandolo in una forma pura e seducente. Distorce la complessità a vantaggio di una chiara semplicità, di qualcosa che può essere facilmente assimilato nel suo insieme. Il mito prende il posto di una storia purgata. È, e non a caso, l’immagine di una norma che la società può accettare e assimilare. Diventa essenza e pertanto è considerata parte inerente e caratterizzante dell’immaginario, la naturalizzazione di un’idea che non riflette ciò che viene significato.
Barthes spiega che il processo di mitologizzazione ha un effetto depoliticizzante su tutto ciò che viene significato, annulla la capacità dell’individuo, fruitore del mito, di vederne il funzionamento interno. L’obiettivo del semiologo, il fine della semiotica, non consiste semplicemente nel capire e studiare i segni, ma serve anche a cercare di capire come quei segni, che possono diventare miti apparentemente immutabili, o luoghi comuni (nozioni banali, quotidiane), capire come possono essere smontati e demistificati. La formulazione fornita da Barthes può essere utilizzata per indirizzare lo studio dei segni e delle relazioni tramite segni contro l’impero borghese e il sentire comune.
Paragonare il capitalismo a una religione non significa trasformarlo in un mito. Sarebbe un fraintendimento del frammento di Benjamin, che invece identifica e analizza quei tratti del capitalismo che sono propri della religione. Si tratta di un progetto profondamente politico, che cerca di demistificare il funzionamento interno del sistema descritto in parte da Weber. Il risultato, però, è che questi tratti analizzati sembrano aver assunto una forma mitica attraverso il concetto weberiano di lavoro e capitale, una forma mitica che apparentemente chiude, ingabbia la persona e gli impedisce di agire.
Troviamo qui il concetto secondo cui il capitalismo farebbe parte della natura umana; lavorare, dedicarsi al lavoro, per poi cogliere quelle soddisfazioni e gratificazioni che ne scaturiscono rientrerebbe nel destino dell’uomo. Compito del semiologo, pertanto, è di separare le due cose, il capitalismo e la natura umana, che invece appaiono confuse tra loro. Per semplificare il compito possiamo dire che lo status mitico del capitalismo corrisponde all’analisi critica fatta da Benjamin: un mito che spoglia il capitale del suo sviluppo storico e dei suoi processi. Un esempio attuale è fornito dal rito dell’analisi costi-benefici finalizzata ad incrementare la fiducia dell’investitore nella politica aziendale; un rito esercitato con devozione in quelle sacre aule che sono le sale riunioni. L’analisi è molto superficiale, esteriore, ma non erronea. Più correttamente, possiamo dire che è il processo continuato di accumulazione e appropriazione, la natura brutale di una dannazione cristallizzante, a rappresentare il peccato originale dell’uomo moderno, un peccato fatto prima da programmatici seguaci di “San Marx”, e poi da chi non vede che questo processo, profondamente politico e dinamico, abbandona molti alle privazioni e alla povertà. Si tratta di visioni lacunose che hanno prodotto un primo mito, il quale a sua volta porta a un secondo mito, quello della naturalizzazione.
L’idea che il capitalismo sia nella natura dell’uomo risponde al concetto di reificazione. Le idee dell’accumulazione e della rete di relazioni (capitalista e lavoratore, le transazioni, il salario e così via) poggiano sul mito di un capitale esistente da sempre, poi divenuto mito della natura. Dobbiamo lavorare se vogliamo guadagnare, perché è un fatto naturale. Bisogna ammettere il proprio compito, perché è un fatto naturale. La natura, così smembrata, si corrompe, il mito la svuota, i suoi processi diventano oscuri. La “natura dell’uomo” prende il posto delle complesse dinamiche della vita quotidiana, dei tanti e diversi modi di vivere degli individui, incapsula il tutto nel significante che dà significato quando è associato al capitale. Il mito sfrutta il potere trasformatore della lotta, lo riporta, sotto la terminologia del pentimento, all’interno della religione del capitale. Fuggire è impossibile, l’identificabile colpa resta universale.
Per questo l’identificazione tra capitalismo e religione non deve essere presa alla leggera. È, come spiegato, una diagnosi delle condizioni in cui persiste la società umana, che cerca di conoscere i meccanismi ritualistici al suo interno. Ma una diagnosi non serve se non c’è una cura. Il semiologo interviene a valutare l’estensione del male, la profondità e lo scopo dei rituali così come si manifestano attraverso la naturalità resa mitologica del capitalismo, offre un potenziale punto di partenza ricavandolo dal contesto. Un punto di partenza che riconosca nel capitalismo non questa reificata cosa-in-sé che esiste in maniera naturale, ma un vero e proprio sistema di dominio dai meccanismi profondamente politici, così che si possa rendere la capacità d’agire a chi ne è stato espropriato ed estraniato. Ecco quindi che ogni atto volto a indebolire il mito diventa una politica affermativa e di uscita: sabotare l’ideale borghese costituito e riaffermare l’autonomia dell’individuo.
Oggi la semiotica, l’analisi dei segni, può rappresentare uno strumento, un’arma che permette di capire la trasformazione del capitalismo in direzione di una forma ancora più immateriale e digitale. Così come il segno nell’accumulazione digitalizzata acquisisce rilievo, anche i segni costituiti divengono la nuova base di nuovi concetti mitici. È quindi molto importante studiare l’ambito in cui questi segni vengono prodotti e riprodotti, analizzare il modo in cui diventano miti persistenti che tagliano le gambe della forza politica di una lotta di liberazione.
Fonti
Barthes, R. (2013). Myth Today. In Mythologies. essay, Hill and Wang.
Benjamin, W. (1996). Capitalism as Religion. In Selected writings (pp. 288–291). essay, Belknap Press.
Löwy, M. (2009). Capitalism as Religion: Walter Benjamin and Max Weber, Historical Materialism, 17(1), 60-73. doi: 10.1163/156920609X399218
Marx, K., & Engels, F. (1990). Chapter 26: The Secret of Primitive Accumulation. In B. Fowkes (Trans.), Capital: a critique of political economy (pp. 873–876). essay, Penguin Books in association with New Left Review.