Tech Learning Collective. Originale: How we can win back the Internet by creating lowercase internets, 11 novembre 2020. Traduzione di Enrico Sanna.
Ad aprile del 2001, cinque mesi prima dell’undici settembre, Bram Cohen mise a punto un protocollo di condivisione dei file che, di per sé, cambiò l’industria discografica, televisiva e cinematografica del ventennio seguente. La tecnologia in sé non era una novità assoluta. Altre tecnologie, come il file transfer protocol (ftp), usato per trasferire file tra computer, esistevano già. Ciò che rendeva così potente questo protocollo era il fatto che rifletteva la struttura spontanea frammentata del mezzo sottostante: Internet.
Invece di considerare il file una unità indivisibile, questa nuova tecnologia lo divideva in tanti pezzi, di dimensioni simili, e trattava ogni pezzo individualmente. A differenza di altre tecnologie come l’ftp, questa nuova tecnologia “peer-to-peer” poteva recuperare i singoli pezzi da chiunque li possedesse, anche se questi non avevano il file intero, come richiesto dai server tradizionali.
La nuova tecnologia fu chiamata BitTorrent, e il suo sistema di trasferimento a pezzi è ancora oggi il tormento delle industrie che vivono di copyright come l’industria discografica e la cinematografica. Il successo di BitTorrent è dovuto al fatto che riflette la natura decentrata della rete in cui si sviluppa, ovvero Internet. BitTorrent e Internet sono tecnologie che non richiedono particolari permessi o attrezzature per connettersi, condividere o ricondividere. Basta un computer con un sistema operativo e un software TCP/IP istallato, un qualunque moderno Windows, Mac o GNU/Linux, per estendere Internet. Basta collegare il computer ad un altro computer già connesso.
C’è ancora qualcosa da imparare a vent’anni dal successo di BitTorrent? Se vogliamo accettare la libertà “offerta da Internet”, immaginata allora con ottimismo, dobbiamo (re)imparare un’importante lezione: Internet è un fatto tangenziale. Noi dobbiamo creare un internet.
Internet, con la maiuscola, è il nome di una particolare rete. Internet “ospita” computer con nomi come Google, Facebook e il Wall Street Journal. La parola internet, con la minuscola, indica invece una qualunque rete di reti interconnesse. L’internet può ospitare qualunque cosa.
È importantissimo distinguere. Per connettere il proprio computer a Internet bisogna sborsare denaro ad una società come Comcast, Verizon o Rogers. Oltre a questo, però, ci sono anche tanti internet a cui ci si può connettere gratis, come Guifi in Spagna o NYCMesh a New York. A differenza di quanto accade con Internet, ognuno può creare un proprio internet per conto proprio, magari connettendolo ad un qualunque altro internet disposto a connettersi a sua volta.
Prima di diventare Internet, era semplicemente internet. Per riappropriarci di Internet, strappandolo alle forze che soffocano la libertà online, dobbiamo puntare a edificare nuovi internet: dobbiamo fare a pezzi Internet e il modo in cui è concepito, come fa BitTorrent che segmenta i file per farne uno nuovo grazie alla collaborazione. Così facendo abbatteremo quella quota di mercato, e metaforicamente anche di cervello, che i monopoli hanno acquisito.
Sembrerebbe una fatica immane, ma gran parte del lavoro è già fatto. Le risorse, in termini di costi e strumenti, sono minime e sempre più diffuse. Non c’è bisogno di scrivere aggiungere righe di codice o fare nuove applicazioni. Abbiamo tutte le risorse che servono. Ciò che manca è l’impegno diffuso dei vicini o della comunità.
Cosa serve per creare un internet? Computer, ovviamente, ma non particolarmente potenti o costosi. Come dice Homebrew Server Club, “un portatile può diventare un buon server casalingo, dato che è alla portata di tutti, relativamente potente e consuma poco.” Accendiamo due portatili connessi tra loro con un normale cavo Ethernet (RJ-45) e abbiamo un primo abbozzo di internet. Aggiungiamo un terzo portatile, o magari un Raspberry Pi, e si può già gestire un servizio dedicato, come un sito web, un indirizzario condiviso o un’agenda elettronica. Si può anche creare una piccola connessione wi-fi per passanti (magari il nostro mini internet è in un infoshop), tutto senza connettersi ad Internet vero e proprio.
Dopodiché serve immaginazione. Questo primo internet magari è piccolo, ma può crescere, così come il primo internet è cresciuto fino a diventare l’Internet che conosciamo oggi. Si pubblica un sito di poesia rivoluzionaria come parte di una collezione di libri digitali (è un infoshop, dopotutto) e qualche vicino sensibile gli dà più di un’occhiata. Aggiungi un altro cavo Ethernet e collega il computer, non servono carte di credito.
Esistono già molti internet del genere. Abbiamo detto di Guifi in Spagna e NYCMesh a New York, ma ci sono anche internet di quartiere che offrono servizi locali allo stesso modo. Alcuni, come NYCMesh, sono anche connessi a Internet, così che oltre ad un servizio esclusivamente locale offrono anche l’accesso al tradizionale Internet. Un sistema del genere è come la rete wi-fi che connette assieme diversi computer in una casa: si paga per una sola connessione, ma a quella connessione possono essere collegati centinaia di computer, o più, simultaneamente.
Tecnologie di internet come BitTorrent si basano sul principio per cui singoli segmenti, ognuno con un suo indirizzo individuale, possono essere uniti fino a formare nuovamente il file originario. Né il sistema di trasferimento di file di Internet né BitTorrent è un tutt’uno monolitico. Questo significa che non occorre chiedere il permesso a qualcuno o a qualche azienda, né servono licenze o prodotti commerciali per creare il proprio servizio, connetterli ad altri pari e offrire qualcosa di utile. È tempo che smettiamo di pagare per connetterci e cominciamo a mettere su il mondo in cui vogliamo vivere.
E se uno vive lontano dall’infoshop estremista citato prima? Creare nuovi internet non è un aut-aut, né un gioco a somma zero. Gli internet fisicamente distanti tra loro possono sfruttare la connessione Internet con la maiuscola per formare una rete tra loro utilizzando tecnologie di rete come il Virtual Private Network (VPN) e/o Tor (servizio Onion). È proprio così che reti separate di comunità o gestite in cooperativa, come quelle citate, vengono ricollegate tra loro. Basta connettere un certo numero di internet – ovvero, aggiungi un altro cavo Ethernet all’edificio accanto, e poi all’altro, e all’altro ancora – ed ecco un nuovo “Internet” che fa concorrenza a quello attuale. Con l’eccezione che questo è nostro e l’accesso non è a pagamento.
Il flusso di dati attraverso le linee telefoniche è molto simile a quello dell’elettricità in un filo o dell’acqua in un tubo, non solo meccanicamente ma anche in termini di dipendenza dall’uomo. La rete elettrica non esisterebbe senza elettricisti. In casa non ci sarebbe l’acqua corrente senza un buon idraulico. Per creare e tenere in funzione un insieme di internet indipendenti come quelli descritti servono amministratori e tecnici di rete, non programmatori, code bootcamp o novità Big Tech. Anzi, è proprio l’autonomia di queste infrastrutture, come le reti di cavi, il primo passo da fare per riprendere possesso di Internet togliendolo dalle mani dei padroni aziendali e governativi. Insomma, ci sono troppi programmatori e pochi amministratori di sistema perché le aziende capitaliste hanno bisogno di programmatori, mentre gli amministratori di sistema servono a mettere su una comunità rivoluzionaria per un futuro giusto ed equo.
È per questo che istituzioni didattiche radicali come Tech Learning Collective puntano più sulle infrastrutture che sul codice, così che gli studenti possano apprendere quelle fondamentali capacità di fare internet spesso trascurate dai programmi che puntano al posto di lavoro subito propri del binomio scuola-azienda. Ed è per questo che anche progetti come Shift-CTRL Space Library, che offrono collezioni preconfezionate di software per la condivisione facile di libri digitali (pdf, riviste e altro), si basano su software libero ampiamente disponibile a discapito della tradizionale offerta di Internet con la maiuscola.
Possediamo già la forza, gli strumenti e la voglia di lottare per riprenderci Internet. Ma non possiamo cominciare dall’ultimo passo che consiste nel fare (ancora più) “nuove” applicazioni. Dobbiamo cominciare dal primo passo: il possesso di un’infrastruttura.