Recensione: The Corruption of Capitalism, di Guy Standing

[Di Kevin Carson. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 6 febbraio 2017 con il titolo Review: The Corruption of Capitalism, by Guy Standing. Traduzione di Enrico Sanna.]

Guy Standing. The Corruption of Capitalism: Why Rentiers Thrive and Work Does Not Pay (London: Biteback Press, 2016).

Dopo aver letto il precedente di Guy Standing, basato sulla sua esperienza di rappresentante sindacale e studioso del ruolo del precariato nell’economia, aspettavo con impazienza questo suo ultimo libro. E non sono stato deluso.

Standing spiega subito cosa intende per “capitalismo di rendita”.

Dicono di credere nel ‘libero mercato’ e vogliono farci credere che la politica economica ampli le sue capacità. Non è vero. Oggi abbiamo il mercato meno libero mai creato…

Come fa un politico a guardare a dire in TV che abbiamo un sistema di libero mercato quando i brevetti garantiscono un reddito monopolistico ventennale, impedendo a chiunque altro di competere? Come fa a dire che c’è il libero mercato quando le norme sul copyright garantiscono un reddito per settant’anni dopo la morte dell’autore? Come può dire che esiste un libero mercato quando a ricevere aiuti sono solo alcune persone o società, o quando si vendono i beni che sono di tutti, a prezzo scontato, a persone o società amiche, o quando Uber, TaskRabbit e simili agiscono come fornitori di prestazioni fuori dalle regole, ricavando profitto dal lavoro di altri?

Lungi dal fermare questa che è la negazione del libero mercato, lo stato crea norme che la favoriscono e incoraggiano. Ecco di cosa parla questo libro.

Finito lo sfruttamento feudale, le rendite, invece di scomparire, sono più che mai una voce importante del reddito plutocratico.

… oggi una piccola minoranza di persone e di interessi corporativi mondiali stanno accumulando grosse ricchezze e potere con la rendita proveniente non solo da beni immobiliari, ma anche da tutta una gamma di beni, naturali o inventati. I ‘rentier’ di ogni genere sono in ascesa vertiginosa e lo stato neoliberista è fin troppo contento di servire la loro avidità.

I rentier cavano reddito dalla proprietà, il possesso o il controllo di beni che sono scarsi naturalmente o artificialmente. Gli esempi più noti sono la proprietà terriera, lo sfruttamento minerario e gli investimenti finanziari, ma crescono anche altre fonti. Come gli interessi sul debito; la ‘proprietà intellettuale’ (brevetti, copyright, loghi, marchi depositati); capital gain sugli investimenti; profitti aziendali ‘sopra la norma’ (quando un marchio, grazie alla posizione dominante, può imporre prezzi alti o condizioni a proprio vantaggio); aiuti di stato; operazioni finanziarie e intermediazioni in transazioni di terze parti.

Più che un “libero mercato”, l’economia neoliberista globale, glorificata come “libero commercio” dai soliti fissati, è in realtà “un insieme di istituzioni e norme che permettono alle élite di massimizzare la rendita.”

Secondo Standing, oggi il 31% dei profitti aziendali occidentali (erano il 17% nel 1999) proviene da industrie che sfruttano le rendite da scarsità artificiali come i brevetti, i copyright e i marchi commerciali, conseguenza di un regime di trattati neoliberisti imposto negli anni novanta. La Apple, ad esempio, ricava il 40% lordo dei profitti dell’iPhone da brevetti, copyright e marchi. Due terzi della ricerca farmaceutica è finanziata con le tasse, mentre i brevetti aumentano il prezzo annuale dei farmaci americani di 140 miliardi di dollari.

Standing liquida così il mito propagandistico della cosiddetta “proprietà intellettuale”: più che a premiare l’innovazione, i brevetti puntano soprattutto a frenarla. Fatto molto importante se si considera che gran parte delle nuove tecnologie e dei nuovi prodotti brevettati sono nati grazie a ricerca e sviluppo finanziati dalle tasse, a tutto profitto dei privati.

Oltre alla rendita data dalla scarsità artificiale delle idee, lo stato garantisce alle classi possidenti rendite enormi con la chiusura delle terre demaniali, pratica che risale alla chiusura delle terre agricole nell’Europa del primo evo moderno, e l’allargamento delle terre (incolte o occupate dalle popolazioni native) in società coloniali come l’America e l’Australia, vedi le haciendas nell’America Latina, l’abrogazione dei diritti terrieri dei contadini da parte di potenze coloniali in Africa e Asia, e il saccheggio delle risorse minerarie e petrolifere. Il diritto del capitale occidentale di saccheggiare terre e risorse continua sotto il neocolonialismo, e una delle funzioni principali dello stato è la difesa di questo diritto (spacciata per “difesa della proprietà privata”) contro i tentativi dei veri proprietari di reclamarne la proprietà.

Oltre ai beni scarsi, citati sopra, altra fonte di reddito dei rentier sono i contributi pubblici. Standing fa i soliti esempi: salvataggi, welfare aziendale per certe industrie, riduzione dei salari tramite la socializzazione dei costi di riproduzione della forza lavoro. Ma dimentica il modo principale in cui lo stato socializza i principali costi operativi del capitale nel suo insieme (cosa di cui parla James O’Connor in The Fiscal Crisis of the State).

Se dagli anni ottanta i profitti aziendali in dollari reali sono triplicati, i salari sono rimasti invariati e la deindustrializzazione ha fatto schizzare in alto il precariato in termini percentuali. Negli ultimi anni, con l’ascesa della gig economy, la tendenza si è accentuata. È grossomodo dal 1980 che nei paesi industrializzati i salari sono slegati dalla produttività.

Dal 2008, gli ideologi neoliberisti spingono la linea propagandistica dell’austerità, dice Standing, sostenendo falsamente che il crack fu dovuto al fatto che la popolazione vivesse oltre i propri limiti, e che l’enorme debito pubblico impedisse la crescita.

Giustamente Standing critica questo pensiero. La vera causa del crack è il neoliberismo stesso. La popolazione “viveva oltre i propri limiti” perché il reddito stagnava dagli anni ottanta, e perché erano stati costretti a ricorrere al debito al consumo o ad ipotecare la casa per sbarcare il lunario. Il neoliberismo sta ora spingendo gli studenti a ricorrere a debiti esorbitanti grazie ad un insieme formato da credenziali e esplosione dei costi dell’insegnamento superiore, in gran parte dovuti ai salari amministrativi.

E ancora stagnazione del potere d’acquisto dei lavoratori e impennata del reddito delle élite rentier. Il che significa che la tendenza cronica del capitalismo alla sovraccumulazione e all’eccesso di capitali senza sbocco utile peggiorava, e le classi possidenti confidavano sempre più sulle bolle dei settori finanziari, assicurativi e immobiliari. La stessa miscela che portò al crack del 1929.

Quanto al debito pubblico, in realtà salva l’economia, o almeno ritarda il collasso risultante dalla combinazione di capitali in eccesso e bassi consumi. I deficit pubblici compensano parte della spesa privata causata dalla stagnazione. Il debito pubblico risucchia migliaia di miliardi in capitali con bond che garantiscono un certo tasso di profitto; se non fosse così, questi soldi finirebbero per inflazionare i capitali abbassando il profitto degli investimenti privati. Il debito pubblico è come il sostegno ai prezzi dei prodotti agricoli ma rivolto ai capitali.

Ma la macchina propagandistica dell’austerità cerca di convincere la popolazione che il miglior modo per sanare la situazione sia un insieme di salari bassi e tagli alla spesa sociale in modo da tenere su il valore di facciata di quei beni su cui le élite finanziarie hanno scommesso perdendo.

La critica di Standing al capitalismo neoliberista non rivela simpatie per il New Deal o la socialdemocrazia. Anzi, ripete l’oggetto delle critiche dei suoi libri precedenti: il “movimento operaio” insito nella socialdemocrazia. Il movimento operaio privilegia il proletariato industriale a tempo pieno a spese del sottoproletariato, e celebra l’industria a spese dell’economia sociale.

Fu la socialdemocrazia allo zenit. Ma il pensiero alla base della Grande Trasformazione metteva al centro il ‘movimento operaio’, non il lavoro in tutte le sue forme. Socialisti, comunisti e socialdemocratici aderivano tutti al ‘movimento operaio’. Chi aveva un lavoro a tempo pieno otteneva un aumento del salario reale, una serie di benefici, e il diritto all’assistenza sociale per sé e la famiglia. Gli altri erano tagliati fuori. Finché questi ultimi erano una piccola minoranza, supportata da una rete di assistenza sociale, il sistema funzionò egregiamente. Le cose cominciarono a peggiorare quando quella minoranza cominciò a crescere.

L’essenza del movimento operaio era che i diritti dei lavoratori, anzi i diritti acquisiti, fossero di chi (soprattutto uomini) svolgeva un lavoro manuale, e con loro anche mogli e figli. Era un passo in avanti, vista la precedente insicurezza. Ma era sostanzialmente sessista e gerarchico, privilegiava chi aveva un lavoro regolare a discapito di chi svolgeva altri lavori, non era pagato o era fuori dal mercato del lavoro, come i lavoratori delle comunità e le baby sitter.

Il movimento operaio promuoveva l’idea secondo cui i privilegi dovevano essere proporzionati al lavoro manuale…. Sfociava in aberrazioni dello stato sociale. Per dare sicurezza lavorativa ai lavoratori si passò dai benefici salariali a quelli non salariali, come pensioni aziendali, ferie pagate, maternità e malattia.

Tutto ciò cementò una certa disuguaglianza strutturale tra chi aveva un lavoro stabile a tempo pieno e chi era costretto a lavori precari o casuali, o magari svolgeva più lavoro non retribuito che lavoro retribuito.

Standing afferma chiaramente che la cosiddetta “sharing economy” è tutt’altra cosa. Uber e piattaforme simili non fanno che estrarre rendita dal capitale fisico posseduto dai tassisti.

In un certo senso, l’economia on-demand ribalta un mantra capitalista. I mezzi di produzione non ‘appartengono’ ai capitalisti ma a chi svolge i compiti: i precari. Le piattaforme massimizzano i profitti con la proprietà e il controllo dell’apparato tecnologico, protetto da brevetti e altre forme di proprietà intellettuale, e con lo sfruttamento del lavoro manuale tramite l’affidamento dei compiti e il lavoro non retribuito. Gli intermediari vivono di rendita, guadagnano tanto facendo poco, se crediamo a loro quando dicono che semplicemente forniscono un supporto tecnologico che mette i clienti in contatto con ‘fornitori indipendenti’ di servizi.

Ovviamente, da importante studioso del precariato qual è, Standing conclude inquadrando il precariato in quello che i marxisti chiamano il “soggetto rivoluzionario” dell’opposizione al capitalismo, creatore di una società post-capitalista. Il tradizionale proletariato industriale, come Standing spiega nei suoi libri precedenti, è diventato fortemente irrilevante ai fini della politica radicale.

Solo il precariato ha il potenziale, in termini di dimensioni, crescita e svantaggio strutturato, di articolare una risposta progressista al capitalismo rentier e alla sua corruzione. Il sottoproletariato, le classi inferiori, non hanno la capacità di agire, anche se in parte possono unirsi alla protesta come avvenne nel 2011. Da questuanti, non possono permettersi di scegliere.

Così la protesta dev’essere guidata dai precari e chi gli sta attorno. Ma per avere successo servono tre cose: un senso di unità attorno ad un credo condiviso; una comprensione condivisibile dei difetti, delle iniquità e dell’insostenibilità della situazione attuale; e una visione ragionevolmente chiara degli obiettivi possibili….

Per arginare gli effetti nocivi della ridistribuzione in un’economia rentier, occorre creare un nuovo sistema in cui salariati e altri ricevano parte del reddito generato da rendite e profitti. I salari da soli non bastano per vivere. Nel ventesimo secolo la contrattazione salariale aveva un senso. Ora non più. Bisogna lottare per edificare un nuovo sistema. Data la stagnazione, occorre trovare nuovi modi per limitare e condividere le rendite e condividere i profitti. Sennò la diseguaglianza continuerà a crescere, con terribili conseguenze sociali e politiche.

Standing propone lo “sciopero sociale”, milioni di persone in piazza per lunghi periodi sul modello di Occupy e M15, come mezzo principale di protesta.

Queste le sue priorità:

  • eliminare i brevetti per le tecnologie sviluppate con soldi pubblici, e accorciare drasticamente la durata degli altri brevetti combinato con l’obbligo di avere una licenza;
  • eliminare ogni aiuto alle aziende;
  • togliere il denaro dalla politica;
  • regolamentare la gig economy, e assicurazione obbligatoria a carico del datore di lavoro;
  • per gran parte delle professioni, tranne quelle riguardanti la sicurezza pubblica, sostituzione delle licenze con una forma di autogoverno collettivo;
  • una paga ragionevole per la disponibilità;
  • tassazione delle rendite e dell’estrazione delle risorse naturali, e creazione di fondi sovrani con cui pagare un dividendo sociale o un reddito di cittadinanza.

La proposta di regolamentare la gig economy mi pare la più sballata. In passato ho espresso apertura verso quelle regolamentazioni che danno un beneficio netto in termini di libertà, ma solo se impongono restrizioni secondarie all’abuso dei privilegi derivanti dall’intervento primario dello stato (vedi il caso specifico di Net Neutrality). Ma è molto più sensato puntare direttamente a quegli interventi dello stato che permettono una finta “sharing economy” come nel caso di Uber e Airbnb, negando le basi legali di queste applicazioni proprietarie chiuse. Contemporaneamente, si dovrebbe coniugare il lavoro di chi opera nella gig economy con il jailbreak (modificare un apparecchio in modo che possa accettare applicazioni di terze parti). Questo metterebbe fine al dominio capitalista nella gig economy, sostituendolo con un’alternativa genuinamente p2p. Altra importante innovazione sentita è la nascita di reti di sicurezza sociale di tipo cooperativo o p2p organizzate secondo il modello delle gilde e costituito da lavoratori freelance e della gig economy.

Generalmente vedo con favore la proposta di un credito sociale, di un dividendo sociale o di un reddito di cittadinanza finanziati tassando le rendite prodotte da esternalità negative (la carbon tax), ma solo come misure transitorie. Ovvero, finché lo stato esiste e impone monopoli e scarsità artificiali tutto ciò potrebbe essere finanziato tassando il reddito ricavato dalle scarsità artificiali, purché dia luogo ad una riduzione netta in termini di sfruttamento. Altro passo nella direzione giusta è la sostituzione dell’attuale invadente welfare state, che in realtà serve a controllare i poveri (per usare le parole di Frances Piven e Richard Cloward), con un reddito di sussistenza incondizionato per tutti.

Se mai ci sarà un reddito di cittadinanza, non potrà essere finanziato con una tassa sul reddito (se non altro per ragioni politiche), ma con la creazione di un’equità sociale nella proprietà dei rentier.

Oltre agli altri di Standing, raccomando questo libro a chi vuole farsi un’idea del pensiero di sinistra alternativo ai dinosauri della vecchia sinistra tradizionale e al loro modello politico, se vuole essere importante nella new economy.

Anarchy and Democracy
Fighting Fascism
Markets Not Capitalism
The Anatomy of Escape
Organization Theory