[Di Ryan Calhoun. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 27 dicembre 2016 con il titolo Why Duterte’s Drug War Can Happen Here and How To Stop It. Traduzione di Enrico Sanna.]
La guerra alla droga di Rodrigo Duterte, nelle Filippine, è unica per le sue uccisioni extragiudiziali di venditori e consumatori di droga. È un processo di pulizia della popolazione equivalente ad un genocidio. Credo che gli americani debbano capire che la logica dietro la politica di Duterte non è diversa dalla nostra. Una volta dichiarata guerra ad un’intera categoria di persone, la disumanizzazione è inevitabile. Il fatto che esistano crimini legati alla droga è considerato un peso, e la disobbedienza una violenta minaccia. Non è passato molto tempo da quando Ronald Reagan definì la guerra alla droga una questione non solo di legge e ordine, ma anche di sicurezza nazionale. Appena quattro amministrazioni fa, agli inizi degli anni novanta, lo zar per la lotta alla droga di George H. W. Bush William Bennet disse di non avere problemi a far decapitare pubblicamente i fornitori di droga. E Daryl Gates, infame capo della polizia di Los Angeles, considerava i reati legati alla droga equivalenti ad un tradimento, da punire con la morte.
Ancora oggi la propaganda equipara chi commercia droga a terroristi da condannare a morte. Giusto quest’anno il governatore del Maine Paul Lepage ha invocato senza imbarazzo per chi usa la droga il ghigliottinamento in televisione. La caratterizzazione fatta da Reagan tanti anni fa è ancora oggi la posizione ufficiale dell’antidroga. Le debolissime connessioni empiriche tra il commercio di droga e il finanziamento del terrorismo acquistano credibilità solo perché siamo indotti a considerare pericolosi questi “criminali”. Trasformare pacifici attori del mercato in minacce serve a distrarre l’attenzione da ciò che davvero aiuta il terrorismo e dà profitto ai cartelli: le leggi antidroga.
Quello che accade nelle Filippine è la logica della guerra alla droga portata alle sue terribili conclusioni. Di unico c’è solo la coerenza. Ciò che accade lì può accadere anche qui. Trump ha detto di sostenere le tattiche di Duterte, e ha nominato uno dei più estremisti fossili nixoniani della guerra alla droga all’ufficio del più potente pubblico ministero del paese. Ma a Trump manca la complicità popolare. Perciò occorre farsi sentire e cercare di umanizzare quelle persone che cercano soltanto di guadagnarsi la giornata o di divertirsi come centinaia di milioni di americani fanno legalmente con l’alcol. Non bisogna illudersi del progresso fatto dalla nostra cultura, perché potrebbe svanire.
Da qualche anno cresce il numero di persone che chiedono la legalizzazione delle droghe, ma noi dobbiamo guardare oltre. Non sono le leggi a determinare l’atteggiamento verso la droga, ma viceversa. Ci dicono che dobbiamo vedere la droga come un problema sanitario, ma anche questo toglie potere d’azione a chi prende droghe, non è un tossicodipendente e soffre d’altro. L’approccio sanitario non è solo liberal: anche Duterte considera malattia l’uso di droghe. Se si vuole davvero liberare una persona da una malattia che si inocula da sé, non resta che l’uccisione. Dunque niente compromessi in fatto di dignità e di normalizzazione dell’uso pacifico delle droghe. Per risolvere la dipendenza occorre curarla, e questo non possiamo farlo finché tutti quelli che usano droghe saranno relegati all’ombra.