Questo è un estratto modificato di Kith: The Riddle of the Childscape, scritto da Jay Griffiths. Siamo onorati dal fatto che Jay Griffiths ci abbia accordato il permesso di pubblicarlo su C4SS.
E se la cosa migliore che potessimo fare per i nostri figli fosse semplicemente lasciarli in pace? Jay Griffiths spiega perché le attenzioni dei genitori stanno rendendo infelici i nostri figli.
Mi sentivo un complice riluttante di una tortura. L’eco degli strilli della vittima risuonava tra le mura dipinte. La porta, sebbene completamente chiusa, non riusciva a fermare le urla di panico. Un bambino, solo e imprigionato in una culla.
Anche la madre del bambino era visibilmente scossa, pallida e in lacrime. Anche lei era una vittima, preda dei sostenitori del pianto controllato, o metodo Ferber; un metodo spietato, crudele per entrambi.
Pianto. Controllato. Queste parole denunciano l’obiettivo odioso: la prepotenza usata per controllare i sentimenti di un bambino. Alla madre avevano detto il contrario, che era il bambino a cercare di imporre il proprio volere sulla madre, ma tutto quello che potevo vedere era un bambino di un anno che impazziva per l’abbandono. Una madre americana ha scritto significativamente su internet: “Il metodo Ferber vale il mio mal di testa o è che sto veramente torturando mio figlio? Mi sembra una punizione crudele e fuori dall’ordinario.”
L’idea è che ai bambini si può “insegnare” a smettere di piangere lasciandoli piangere da soli. Di quando in quando un genitore va a controllarli, ma senza prenderli in braccio né stare con loro. Con il tempo, il bambino impara che piangere non porta consolazione e smetterà di provarci. I genitori sono incoraggiati a limitare a certi attimi il tempo trascorso a controllare il bambino. Il sistema funziona? Certo. Non è questo il problema. Il problema vero è: perché incoraggiare una cosa del genere? Perché c’è chi la accetta? Cosa rivela riguardo le priorità del mondo moderno? E come fa a fornire risposte al problema dei bambini infelici?
Abbracciati, stretti e serviti, la maggior parte degli infanti, nel corso della maggior parte della storia, hanno conosciuto il mondo lontano dalla solitudine. Tra le popolazioni Maia di lingua Tojolabal del Chiapas, in Messico, durante i primi due anni di vita i bambini stanno sempre vicino alle loro madri, che sono sempre pronte a calmarli con un giocattolo o il latte, perché non si sentano infelici. Tra le popolazioni Aché, nomadi della foresta del Paraguay, i bambini fino ad un anno passano la maggior parte della giornata a contatto fisico con la madre o il padre, e non toccano mai terra né vengono lasciati soli se non per pochi secondi. In India e in molte altre parti del mondo, i bambini possono stare nel letto della madre fino all’età di cinque anni.
Per molti genitori, le ragioni per adottare il pianto controllato possono essere riassunte in una parola: lavoro. I genitori che vogliono una vita di “routine” sono accaniti sostenitori del pianto controllato, dice Gina Ford, britannica, nota sostenitrice del metodo. I bambini che sono stati obbligati alla routine, commenta, si adattano facilmente anche alla routine della scuola e, si presume, saranno più malleabili come forza lavoro.
Eppure, in tutto il tempo che ho trascorso nelle comunità indigene non ho mai sentito gli strilli di paura e rabbia dei bambini sottoposti al pianto controllato. Se un bambino viene saziato spesso, commenta lo scrittore Jean Liedloff, quando sarà un bambino più grande vorrà tornare al contatto materno solo in caso di emergenza. Crescendo, questo bambino acquisirà più fiducia in se stesso, non per la scarsità di contatti durante l’infanzia (come dicono i sostenitori del pianto controllato) ma esattamente per l’opposto: per la loro abbondanza. All’età di circa otto anni, i bambini Aché, che da infanti non sono mai lasciati soli, sono già in grado di trovare la strada tra i sentieri della foresta e riescono ad essere molto indipendenti dai genitori. Nella Papua Occidentale ho visto bambini cresciuti a contatto con la famiglia diventare fieramente e orgogliosamente indipendenti.
Crescendo, il desiderio di libertà dei piccoli sembra diventare insaziabile. Di recente mi è capitato di dare lezioni di scrittura, a Kolkata, a bambini che per qualche tempo erano stati rinchiusi in una scuola in cui erano ben accuditi e generalmente felici. C’era una sola cosa che desideravano ardentemente: la libertà. “Vogliono la libertà che hanno conosciuto nella strada,” ha detto un insegnante, “andare ovunque in qualunque momento.” Nonostante i problemi della strada, come la povertà, i maltrattamenti, la fame e la violenza, i bambini “continuano a fuggire”.
Una volta lasciata l’infanzia, i bambini degli indiani d’America tradizionalmente sono liberi di vagabondare dove vogliono, tra i boschi come sull’acqua. “All’età di cinque anni sono già adulti, raggianti di salute e… affamati di libertà,” scrive Roger P. Buliard in Inuk, parlando della fanciullezza degli Inuit. Più o meno all’età di sette anni, il giovane comincia a maneggiare il coltello, vuole il fucile e la trappola, e da quel momento comincia ad “andare con gli adulti, condividendone il coraggio”.
Una volta trascorsi alcuni giorni a caccia di renne con i Sami, e vidi come i bambini erano liberi non solo quando si trovavano all’esterno, ma anche quando erano dentro la capanna estiva. Frugavano alla ricerca di qualcosa da mangiare, una fettina di renna cotta o un pesce appena pescato o una scatola di gallette, scegliendo cosa prendere; questo evitava quella grossa fonte di conflitti famigliari: l’ora del pasto.
Una delle caratteristiche della fanciullezza in molte società tradizionali sembra essere l’autonomia alimentare. I bambini Alacaluf della Patagonia imparano presto ad arrangiarsi; si servono di una lancia fatta con una conchiglia e a quattro anni sanno già cucinarsi il pasto. I giovanissimi Inuit usano la frusta per catturare le pernici bianche, mozzandone la testa con un guizzo del polso. Viaggiando tra le alture della Papua Occidentale, nel territorio degli Yali, mi capitò spesso di vedere piccoli dei villaggi che partivano in gruppo, carichi di archi e frecce, a caccia di uccelli e rane, che poi arrostivano sul fuoco fatto da loro stessi.
In Inghilterra un gioco ambientalista chiamato Wild About Play chiedeva a dei bambini quale era la cosa che più avrebbero voluto fare all’aperto, al che risposero raccogliere e mangiare frutti selvatici, e fare il fuoco per arrostire qualcosa. Questo è il segno dell’indipendenza che i bambini dimostrano dappertutto: badare al proprio cibo e alla propria persona. Apparentemente, i bambini europei e americani hanno un rapporto insolito con il cibo: primo, diventano autonomi tardi; secondo, hanno problemi con il mangiare.
Quanto alla libertà fisica, qualche anno fa trascorsi una giornata con dei piccoli degli Zingari di Mare, i Bajau, che vivono in palafitte costruite lontano dalla costa dello Sulawesi. I bambini sapevano tuffarsi e nuotare, maneggiare le barche e pagaiare; bagnati di acqua di mare giorno e notte sembravano una via di mezzo tra l’uomo e la lontra. Chiesi loro come vivevano l’infanzia. La risposta fu immediata: “I bambini sono felici perché sono molto liberi.” Se la felicità è il risultato della libertà, l’infelicità dei moderni bambini occidentali è sicuramente causata, almeno in parte, dal fatto che sono i meno liberi di tutta la storia.
Fui colpito dalla chiara felicità dei bambini Bajau: rimasi con un centinaio di loro per tutto il lungo pomeriggio e non ne vidi uno piangere, o imbronciato, infelice, frustrato. Non riesco ad immaginare un pomeriggio con cento bambini europei o americani e non sentirne neanche uno piangere.
In Europa, c’è un paese che sembra aver onorato la relazione tra libertà e felicità infantile in una maniera che gli Zingari di Mare avrebbero compreso: la Norvegia. Una terra di laghi e fiordi, un paese che ha codificato in legge l’antico diritto di andare liberamente in canoa, remare, veleggiare e nuotare, e di passeggiare dappertutto (tranne i giardini privati e le terre arate), una legge conosciuta come Allemannsretten, “il diritto di tutti”, il diritto di vagabondare.
Nel 1960, lo psichiatra americano Herbert Hendin stava studiando l’incidenza dei suicidi in Scandinavia. La Danimarca (assieme al Giappone) aveva l’incidenza più alta. La Svezia era un po’ più giù. E la Norvegia? In fondo alla lista. Hendin era incuriosito, soprattutto perché sapeva che Danimarca, Svezia e Norvegia avevano culture simili. Qual era la ragione di queste differenze drammatiche? Dopo anni di ricerche, arrivò alla conclusione che questa ragione era nell’infanzia. Se in Danimarca e Svezia i bambini crescevano irreggimentati, in Norvegia erano liberi di girovagare. In Danimarca e in Svezia si faceva pressione sui piccoli affinché intraprendessero una carriera con un obiettivo, e molti finivano per sentirsi dei falliti. In Norvegia questi avevano più libertà; non erano tanto guidati; più semplicemente erano lasciati liberi di guardare e partecipare e fare esperienza. Crescendo, i bambini norvegesi non acquisivano un senso di fallimento ma di indipendenza.
Lo studio dimostrava che i piccoli danesi erano iper-protetti e dipendenti dalle madri, e non erano liberi di andare dove volevano. L’esperienza comune dei piccoli svedesi era fatta di separazione e abbandono quando avrebbero avuto bisogno di vicinanza; crescendo, poi, finivano per essere iper-controllati quando avrebbero avuto bisogno di maggiore libertà. I bambini norvegesi giocavano all’aperto per ore sotto la supervisione degli adulti, ed era improbabile che la loro libertà subisse restrizioni. In tenera età ricevevano più vicinanza degli svedesi, ma crescendo le parti si invertivano ed erano più liberi delle controparti danesi e svedesi, e questo forse fa capire che il segreto di un bambino felice sta in questa vicinanza seguita dalla libertà.
Purtroppo nei decenni seguenti il lavoro di Hendin la Norvegia divenne più centralizzata e urbanizzata e l’esperienza infantile cambiò. Oggi i bambini norvegesi passano più tempo a casa in attività sedentarie, come guardare la televisione o un DVD o giocare con il computer, che all’aperto. L’incidenza dei suicidi oggi è molto più alta.
In Europa così come in America, molti giovani oggi sono a tutti gli effetti agli arresti domiciliari: nel Regno Unito l’80% si lamenta perché “non ha un posto dove andare”. Sono le quattro del pomeriggio, hai un paio di sterline in tasca e poco più. Ti sei fatto la tua giornata e vorresti stare con i tuoi amici. I cheap cafe chiudono tra un’ora, il ristorante non te lo puoi permettere e nel pub non ti lasciano entrare. A tutti quelli che ti ascoltano spieghi che non vuoi dare fastidio; solo ti basta un posto asciutto, ben illuminato e sicuro, dove passare un’ora a chiacchierare. Così te ne vai sotto la pensilina dell’autobus, in un parcheggio, davanti alle vetrine dei negozi. E ti mandano via come un appestato. Il Regno Unito è apparentemente all’avanguardia nell’insegnare come non si trattano i giovani.
Un progetto di mettere su un canestro da netball in un parco dell’Oxfordshire fu bloccato “perché i residenti non volevano attirare ragazzini”. Nel Somerset occidentale, una bambina di otto anni è stata fermata mentre andava in bicicletta per la sua strada perché un vicino si era lamentato delle ruote che cigolavano. Un sondaggio rivelò che due terzi dei bambini avrebbero voluto giocare fuori casa, il 50% era stato sgridato per averlo fatto, e il 25% di quelli tra gli undici e i sedici anni erano stati minacciati di percosse perché… perché? Perché giocavano fuori, facevano chiasso, davano fastidio.
La cosa più triste è che funziona. Un bambino su tre raccontò di aver smesso di giocare per strada dopo aver ricevuto l’ordine di smettere. Se c’è una parola che riassume il modo in cui sono trattati i bambini oggi, questa è recinto. I bambini di oggi stanno rinchiusi a scuola e a casa, rinchiusi in macchine che li portano avanti e indietro tra l’una e l’altra, prigionieri della paura, della sorveglianza e di orari inflessibili.
Nel 2011 l’Unicef chiese ad un gruppo di giovani cosa avrebbero voluto per essere felici, e le prime tre risposte furono: il tempo (soprattutto con la famiglia), le amicizie e, significativamente, “lo spazio aperto”. Gli studi dimostrano che quando i bambini vengono lasciati giocare liberamente tra la natura, il loro senso di libertà, indipendenza e forza interiore accresce. Quando sono circondati dalla natura i bambini non solo non sono stressati ma hanno una maggiore capacità di riprendersi da eventi stressanti.
Ma lo spazio aperto in cui i bambini possano giocare si riduce costantemente. In Gran Bretagna, i bambini hanno un nono dello spazio aperto che aveva la generazione precedente. Anche il tempo disponibile si è ridotto. Meno del 10% dei bambini passa qualche tempo nei boschi, in campagna o nelle brughiere, contro il 40% di una generazione prima. I bambini più piccoli spesso sono tenuti dentro perché gli adulti temono per loro, mentre quelli più grandi sono tenuti dentro perché gli adulti temono di loro.
In Amazzonia, ho sentito di bambini di cinque anni che maneggiavano il machete con destrezza e precisione. In Igloolik, nell’Artico, ho visto un bambino di otto anni prendere un coltello e macellare un caribù ghiacciato senza incidenti. Nella Papua Occidentale, ho visto ragazzini di dodici o tredici anni con una tale capacità fisica e una tale sicurezza che, quando gli chiesero di fare da messaggeri, percorsero tutto il sentiero tra le montagne in sei ore; roba che io avrei fatto un giorno e mezzo con le guide.
Non è solo una questione di capacità fisiche: la libertà a cui i piccoli Inuit erano tradizionalmente abituati li aveva resi “individui autonomi, generosi e dotati di autocontrollo”, per dirla con uno degli Inuit che mi è capitato di conoscere a Nunavut, in Canada. Questo dava loro coraggio e pazienza.
I piccoli hanno bisogno di tempo libero illimitato, ma questo tempo è scarso per molti, che vivono una vita parcellizzata tra quattro mura, la giornata suddivisa in orari prestabiliti che vanno dalla sveglia al sonno, ogni ora controllata da genitori preoccupati dal fatto che il loro figlio possa restare indietro in quella corsa al successo che è la vita fin dalla culla. I genitori amano i propri figli, non vogliono che siano dei perdenti nella vita, per questo li spingono ad impiegare efficientemente il proprio tempo. La società instilla un’ansia del futuro che può essere calmata solo sacrificando il gioco e la serenità nel presente, e i bambini ne sentono gli effetti sotto forma di affaticamento e depressione.
In molte culture tradizionali, invece, i bambini sono considerati i migliori giudici dei loro bisogni, compreso come passare il tempo. Nella Papua Occidentale un uomo mi raccontò che da bambino “Andavamo a caccia e pesca e tornavamo a casa solo quando sentivamo i grilli.” Nel tipi dei bambini dove James Hightower, un meticcio cherokee, passò grandissima parte della sua fanciullezza, si poteva giocare fino alla quattro del mattino. “I bambini indiani non erano come quelli civilizzati,” rammentò, “che hanno un’ora precisa per mangiare e una per dormire.” (Nella sua bocca, la parola “civilizzati” non è un complimento).
“Quando stiamo lavorando non abbiamo tempo per occuparci dei piccoli,” mi disse una volta Margrethe Vars, una donna Sami che pascola le renne. Si fermò per fare un tiro alla sigaretta, e le sue parole, ad imitazione dei suoi genitori europei, uscirono letteralmente fumanti: “Ti sei lavato le mani. Adesso vai a mangiare.” Fece la faccia triste: per come la vedeva lei, la libertà per un bambino non è solo un diritto ma una vera e propria liberazione. Quando l’estate si allungava fino a diventare una sola lunga giornata, i piccoli Sami prendevano a passare la “notte” svegli, e questo senza che nessuno si preoccupasse perché i genitori erano dell’opinione che fossero i piccoli a decidere come impiegare il tempo. Così nel primo mattino – brillante di sole estivo – vedevi questi piccoli che partivano a manetta con il quad, andavano a controllare le renne, scherzavano o dormivano.
“Qui noi dormiamo quando siamo stanchi e mangiamo quando abbiamo fame,” disse Vars. “In altre società, invece, i piccoli sono molto programmati. Hanno orari per tutto: mangiare, dormire, prendere un appuntamento e vedere un amico…” Rabbrividiva all’idea di una pianificazione dettagliata. Lo stile di vita dei Sami ha dato grandi risultati positivi; non solo ha ridotto i conflitti su questioni meschine, ma ha anche prodotto qualcosa di intangibile e vitale. I piccoli venivano su più autonomi, meno obbedienti alle pressioni dall’esterno.
Le popolazioni Wintu della California hanno un rispetto così profondo per la volontà autonoma che questa si riflette anche nel linguaggio. In inglese, la frase “portare un bambino” da qualche parte implica un senso di costrizione. In lingua Wintu non si dice così: si dice “sono andato assieme al bambino”. “Ho controllato il bambino” diventa “ho controllato con il bambino”. Gli Wintu non riuscirebbero a costringere nessuno neanche se lo volessero: il linguaggio che non glielo permette. Quando un piccolo Wintu chiede “Posso?” non sta chiedendo il permesso ad un genitore ma una delucidazione, vuole sapere se le regole generali permettono di fare una certa cosa, così che non si senta alla mercé di un adulto che impone regole che possono sembrare capricciose e arbitrarie.
Facciamo un passo indietro per un attimo. Cosa significa lasciare che i piccoli facciano a modo loro? E fare tutto quello che vogliono? Non sarebbe un disastro totale? Certo, ma solo se i genitori eseguono la prima metà del trucco. Nel lessico culturale del mondo moderno, l’ostinatezza, la volontà caparbia di fare qualcosa, è spesso interpretata banalmente come comportamento da marmocchio, egoista. Ma volontà non significa egoismo, e gestirsi autonomamente non significa ostilità verso gli altri; al contrario. I piccoli degli Ngarinyin, in Australia, tradizionalmente crescevano senza ordini o coercizioni, ma imparavano a socializzare fin dalla tenera età. Questa è la seconda metà del trucco. La socializzazione dei piccoli serve a stimolare la consapevolezza e il rispetto per la volontà e l’autonomia degli altri; in questo modo, quando con la crescita diventa necessario, imparano a tenere a bada i propri desideri al fine di mantenere buone relazioni. Perché una comunità funzioni, un individuo deve, all’occasione, sentire il bisogno di frenare la propria volontà, ma, è questo è di importanza cruciale, non deve essere qualcun altro ad obbligarlo a fare così.
Inuit e Sami hanno la necessità evidente di fare in modo che i piccoli sappiano regolarsi da soli. Gli adulti si tengono a distanza con tatto e riservatezza. Il bambino “sta imparando da sé” è un’espressione comune tra i Sami. Ai piccoli dei Sami viene insegnato a controllare l’ira, le emozioni, l’aggressività e la vergogna. Gli Inuit insistono, con cauta enfasi, a sostenere che i bambini devono imparare l’autocontrollo. Il piccolo non deve essere controllato da qualcun altro, nessuno deve sovrapporsi al suo volere, ma deve imparare a guidarsi da sé.
La volontà è la forza motrice di un bambino: lo sprona da dentro, al contrario dell’obbedienza che costringe dall’esterno. Per chi vuole dominare la volontà di un bambino “obbedienza” è la parola d’ordine, perché teme la disobbedienza e il disordine e crede che se un bambino non è controllato è il caos. Ma queste sono false contrapposizioni. In verità, contrapposta all’obbedienza non è la disobbedienza ma l’indipendenza. All’ordine non si contrappone il disordine ma la libertà. E l’autocontrollo, non il caos, si contrappone al controllo.