Di David Coetzee. Articolo originale: Artificial Aging, del 9 marzo 2022. Traduzione italiana di Enrico Sanna.
A sentire la parola propaganda viene da pensare ai peggiori regimi totalitari del Novecento, ai martellanti slogan orwelliani che impongono obbedienza, alle minacce di violenza, alle falsità spudorate ripetute così tante volte che la gente non sa più come fa a sapere quello che sa. A livello psicologico sociale è un incubo, ma sappiamo anche che è un’arma spuntata. Come un bullo, anche se un bullo diabolico.
La nostra propaganda, per contro, ha il tatto di un truffatore, un truffatore sofisticato, potrebbe essere la simpatica canaglia in una farsa se non fosse per i suoi pericolosi effetti. Come una banda di imbroglioni, questi adepti di Edward Bernays mettono su le loro squadre di imbonitori, cianciafrottole e tirapiedi e assegnano ad ognuno il proprio ruolo. Evitano parole come “glorioso”, sono modesti, si esprimono complicato, parlano come i ventriloqui, con la voce di qualcun altro. Facevano astroturfing quando ancora non esisteva neanche la parola. È così che hanno sviluppato la particolare capacità di inventare secoli di storia e di tradizioni antiche nello spazio di un pomeriggio.
A voler fare un inventario del loro mondo ci vorrebbe uno spazio ben più grande di questo. In campo urbanistico si potrebbero citare le staccionate bianche, quel simbolo di una pacata, isolata vita domestica divenuta una realtà pratica con i sobborghi dormitorio incentrati sull’auto nati dopo la metà degli anni Trenta. Basta pensare che un sacco di gente crede bizzarramente che la rete stradale, meticolosamente pensata da pianificatori dello stato in risposta alle esigenze delle industrie affamate di lavoratori e prodotti, non sia altro che la formalizzazione di antichi sentieri tramite asfalto. O che le città abbiano sempre avuto un nucleo formato da uffici, o perlomeno dai precursori degli spazi di lavoro salariato, e che la gente abbia sempre abitato nelle periferie. Si potrebbero citare esempi simili all’infinito.
Qui io non voglio parlare di questo, ma piuttosto del fatto che è diventato abituale considerare antiche cose che in realtà sono recentissime. Lo sento spesso in dibattiti di ogni genere. Riguardo le funzioni della nostra propaganda non sto dicendo niente di nuovo: non m’interessa sapere chi ha preso il male da chi.
Ad esempio, quando su Facebook ho provato a fare un commento sui meccanismi sistemici del capitalismo che causano il degrado ambientale, come risposta scontata mi son sentito dire che il problema è che la gente non “rispetta la natura” e che, risposta altrettanto scontata, il problema risale al monoteismo abramitico. La Genesi (1:28) dice “riempite la terra, rendetevela soggetta”, ed è da allora che facciamo a gara a chi scarica più rifiuti tossici nei fiumi. Prima e importantissima obiezione è che se analizziamo correttamente gli aspetti strutturali è chiaro che questi non dipendono significativamente, in aggregato, da ciò che la gente rispetta o non rispetta; tanto più che se uno chiede in giro, scopre che la gente ha un enorme rispetto per tante cose, compresa la “natura”; ma questo non cambia nulla. Tutto ciò è stato offuscato dal fatto che qualche sedicente erudito nella storia del pensiero in passato ha sottostimato la complessità del concetto di “natura”, in particolare nel contesto storico.
Nel 1686, Robert Boyle provò a elencare tutti i significati attribuiti ai suoi tempi alla parola “natura”:
Talvolta utilizziamo la parola natura nel senso di Creatore della natura, ciò che gli scolastici chiamano, piuttosto rigidamente, natura naturans, come quando si afferma che la natura ha fatto l’uomo parte entità corporea e parte immateriale. Talvolta per natura di qualcosa intendiamo la sua essenza, ovvero quello che gli scolastici si prendono lo scrupolo di definire la quiddità di qualcosa, l’attributo o gli attributi sulla base dei quali la cosa è ciò che è, che sia corporea o no, come quando si vuol definire la natura di un angelo, o di un triangolo, o di una entità fluida in quanto tali. Talvolta intendiamo per natura un principio insito nel moto, come quando diciamo che una pietra lasciata cadere in aria è per natura attratta dal centro della terra, o, al contrario, quando diciamo che il fuoco o la fiamma tende naturalmente verso l’alto, ovvero verso il cielo. Talvolta per natura intendiamo l’ordine costituito delle cose, e allora diciamo che la natura fa sì che alla notte succeda il giorno, o che la natura rende indispensabile la respirazione per la vita dell’uomo. Talvolta la natura è intesa come aggregato di forze di un corpo, soprattutto un corpo vivente, come quando un medico parla di natura forte, debole o esausta, o dice che nel caso di questa o quella malattia la cura migliore è lasciar agire la natura. Talvolta intendiamo per natura l’universo, il sistema di entità corporee create da Dio, e pertanto diciamo ad esempio che in natura, ovvero nel mondo, non esistono né la fenice, né la chimera. Altre volte infine, intendiamo molto comunemente per natura una semi-divinità o altre stranezze, come quelle di cui questo trattato esamina il concetto.
~ Robert Boyle, A Free Enquiry into the Vulgarly Received Notion of Nature
Forse avrebbe potuto aggiungere un altro esempio o due, e l’avrebbe fatto se fossero stati dominanti come quello implicito nella mia precedente accusa critica al senso principale, ordinario del termine. Sì, era normale personificare la “natura”; sì, è stata sacralizzata, se non proprio deificata. Ma se è vero che storicamente la “natura” ha potuto indicare qualcosa di extraumano, è però anche vero che si trattava di un caso raro ed eccentrico, tanto che Boyle non ritiene neanche di doverlo citare, sempre che lo conoscesse. Ma di tutto quel lussureggiante reame silvestre e selvaggio, “mai toccato dalla mano dell’uomo”, e apparentemente offeso da tutti a partire dal nono secolo avanti Cristo, non c’è traccia.
Questo non significa affatto che siano da disprezzare Gerard Manley Hopkins e le sue “All things counter, original, spare, strange”. È che definire tutto ciò come “natura” sarebbe stato un po’ strano anche ai tempi di Hopkins. E comunque non è quello che voglio dire.
Quello che voglio dire è che è singolare il fatto che, quando si va a indagare sulle origini storiche di tante cose ritenute antiche come il mondo, ci si ritrovi spesso impantanati in qualcosa avvenuto attorno al 1750. Altrettanto singolare è il fatto che spesso si trovi Jean-Jacques Rousseau immischiato nell’affare, anche se indirettamente.
Qui Rousseau ha un’importanza cruciale. Fu lui a rendere popolare, se non proprio ad inventare, questo concetto particolare di “natura”. Nel corso dei due secoli seguenti il concetto si è imposto al punto che oggi quando si dice “avvicinarsi alla natura” sappiamo cosa si vuole dire. Si può arrivare a dire, portando agli estremi il concetto di uomo come intruso della natura secondo il “noi escluso”, che è da qui che hanno origine, almeno in parte, tutti quei culti e quelle filosofie contorte basate sulla premessa di un’origine extraterrena dell’uomo.
Ma il principio di base è che, se vogliamo affrontare l’argomento ecologia, dobbiamo abituarci a pensare alla maniera dell’uomo medievale con il suo concetto di “natura”, o anche di “grande madre natura”, che governa tanto le città col suo insieme di regole della proprietà quanto i batteri e il volo degli uccelli, e questo a prescindere dal fatto che si dia credito o meno a certe nozioni di diritto naturale. Solo così possiamo vedere, ad esempio, l’accumulo di terra causato dalla tradizionale agricoltura attorno ai fiumi non come il risultato di un “intervento umano”, con tutto ciò che significa in termini di “interferenze” e “intromissioni” (ovvero di “violazione della natura”), ma come una valida funzione ecologica; possibilmente perché dev’essere giudicata sulla base dell’ecosistema risultante, non sulla base del fatto che si tratta di un intervento umano.
Chi ha letto Kevin Carson non fa fatica a riconoscere un’eco del modo in cui le origini storiche del capitalismo sono state nascoste dietro miti ancestrali. Se John Locke e la sua preistorica “propensione al baratto e allo scambio” segna le origini di questo concetto, Rousseau rappresenta una posizione più avanzata (non meraviglia il fatto che il nome di Rousseau su Wikipedia compaia già al primo paragrafo sulla pagina dedicata a Locke!). Eventi come l’Inclosure Act del 1773, primo di una serie di leggi parlamentari sulle chiudende, d’importanza cruciale per lo stabilimento di quelle relazioni economiche che resero possibile il capitalismo industriale con la spoliazione di gran parte della popolazione inglese e gallese, rientra benissimo nell’insieme. E sono proprio eventi come questi che oggi vengono solitamente negati, ignorati o banalizzati, così da far passare per eterne e inevitabili le relazioni economiche sottostanti il capitalismo.
Lo stesso schema emerge quando cerchiamo le origini storiche del razzismo in quanto ideologia formata, ovvero non come semplici casi di fanatismo sciovinistico, disprezzo o identificazioni di comodo. Nonostante i tanti precursori, analisi approfondite fissano le sue origini attorno alla prima metà del diciottesimo secolo. In “How to be an Anti-Racist” (2019) (Come essere antirazzista, ndt), Ibram X. Kendi fa risalire le prime attestazioni razzistiche almeno ai tempi del cronista portoghese Gomes Eanes de Zurara, e le prove si troverebbero nelle sue cronache quattrocentesche. Per quanto io approvi ampiamente l’intento di Kendi, nelle opere di Zurara non ho mai trovato un concetto di razza assimilabile a quello affermatosi a partire dall’Ottocento. Certi modi di associarsi degli africani li giudica patetici, altri ammirabili, ma non allude mai, se non in maniera molto esitante e traballante, a un’identità comune a tutti gli africani, o a una sua identità comune con quella dei norvegesi o dei greci. Ha un concetto di “cristianità” tipico del Quattrocento, ovvero come di qualcosa dai confini molto elastici, tanto che non esita a comprendervi anche i cristiani dell’Africa. Cita soltanto fugacemente la “maledizione di Cam”, un concetto che affiora sporadicamente e marginalmente nel medioevo, non sempre riferito agli africani e spesso inteso nel senso di persone sfortunate più che inferiori. A marcare la dipendenza dal suo patrono, Zurara era particolarmente scrupoloso quando si trattava di esaltare il principe Enrico il navigatore in termini tipicamente stravaganti sostanzialmente senza colpire altre persone. Se stiamo cercando quell’insieme di idee che favorirono l’emergere di concetti come il fardello dell’uomo bianco, l’imperialismo geopolitico, il razzismo scientifico, l’eugenetica razziale, il fascismo, il nazismo o l’apartheid, non lo troviamo certo in Zurara; o, perlomeno, Zurara non diceva niente di diverso rispetto ai suoi predecessori.
Similmente, in certi espedienti legali dell’America del primo Settecento troviamo poco più che tentativi sfrontati di espropriare persone particolari in situazioni particolari, secondo quelle che erano apparenze definite arbitrariamente. Le idee che caratterizzano il razzismo ideologico non ci sono neanche laddove ci si aspetterebbe di trovarle. Decenni più tardi, presso il Capo di Buona Speranza, troviamo nel diario di Jan van Riebeeck un misto di disprezzo e affetto per Autshumao, nonché una certa impazienza dettata dalla sua sfacciata avidità, ma mancano quelle categorie razziste che pure ci si aspetterebbe di trovare abbondanti. Le linee essenziali cominciamo invece a vederle mezzo secolo più tardi nelle discussioni all’interno di certe cerchie intellettuali europee. Ne parla Immanuel Kant; Hegel ci costruisce sopra un suo castello cosmico, poi usato indegnamente da Arthur de Bobineau verso la metà dell’Ottocento. Dopodiché gli ideali palpabilmente e innegabilmente razzisti piovono fitti. Dopo tre secoli di allusioni e sfumature, diventano un fiume.
Da qui capiamo come il programma coloniale europeo, e la tratta degli schiavi che ne fu una componente essenziale, abbiano preceduto l’invenzione del razzismo di qualche secolo attraverso l’edificazione del concetto di “razza”. Non fu il razzismo a causare la tratta degli schiavi, fu la tratta ad originare il razzismo nel corso del tempo.
Questo è importante se vogliamo capire il mondo di oggi, che vede un’inattesa risorgenza di pericolose ideologie etno-fasciste essenzialiste in comunità finora considerate vittime del razzismo. Penso al nazionalismo induista in India, con la conseguente repressione violenta che normalmente ci si aspetta soltanto da movimenti di destra. Ma penso anche a certe tendenze inquietanti qui in Africa, con la loro adozione completa e assoluta delle strutture e di gran parte del tessuto dell’ideologia colonialista europea: la fede nell’esistenza di “razze” distinte, di cui gli individui sarebbero semplici emanazioni semireali in lotta costante tra loro per la sopravvivenza tramite il dominio. Tutto ciò si regge sull’idea, nata da un “odio essenziale” nei confronti della “razza bianca”, che il razzismo non solo sia sempre esistito, ma che sia anche la ragione di base del programma coloniale europeo. Così facendo si invertono tutte le cause. Si ripete a cantilena che “la razza è un costrutto”, ma per spiegare la meccanica con cui è stata costruita la “razza” si presuppone l’esistenza di una logica “della razza” precedente ed eterna. Come dire che se esiste il mito delle fate è colpa delle fate!
E pare che la questione vada oltre la denuncia dell’orribile, grottesca disumanizzazione dell’identità nera fatta da Steve Biko. E qui torniamo, perlomeno nello spirito, all’industria pubblicitaria, al 2016 e all’attività dell’ormai defunta agenzia di pubbliche relazioni Bell Pottinger, che introdusse l’espressione capitale monopolistico bianco nel discorso politico sudafricano nel tentativo non solo di legittimare la cleptocrazia dell’amministrazione Zuma, ma anche di identificare il capitale con la popolazione “bianca” in generale, a prescindere dal fatto che una qualunque persona dalla pelle bianca o nera possieda o meno significativi capitali. È evidente che alla base c’è il mito della “razza antica”, da cui anche l’idea di un “razzismo antico”, così da far credere che il capitale non è controllato da persone o organizzazioni, e neanche da quelle strutture o funzioni sistemiche che Marx bizzarramente chiama “classi”, ma da una razza. Importa poco che io non abbia un quattrino, o che anzi sia bakunianamente interessato a promuovere la libertà economica del mio vicino dalla pelle scura e cancellare la cosiddetta identità bianca dalla faccia della terra. Se Anton Rupert possiede miliardi, che mi taglino pure una libbra di carne dal sedere. La cosa peggiore è che tutto ciò non tocca affatto l’attuale razzismo strutturale.
Più che altro evitiamo di parlarne, lasciando però in piedi i concetti che lo rendono possibile.