Di Frank Miroslav. Originale pubblicato il 7 luglio 2019 con il titolo Review: Fully Automated Luxury Communism. Traduzione di Enrico Sanna.
Il recente libro di Aaron Bastani di Novara Media, Fully Automated Luxury Communism, è l’ultimo di un fiorente genere postcapitalista che comprende Four Futures di Peter Frase, Postcapitalismdi Paul Mason e Inventing the Future di Nick Srnicek e Alex Williams. Versione marxista dei libri tecno pop un tanto al chilo, tra tutti il libro è decisamente il più fiacco. Bastani divide la storia in parti con il suo schematismo concettuale, prende dai media tradizionali per illustrare le possibilità offerte dalla tecnologia e ripete tutte le banalità del postcapitalismo: beni a costo marginale zero, una citazione del Frammento sulle macchine di Marx, Keynes che parla della ridefinizione dei valori in un mondo fortemente automatizzato, eccetera. Nessuna sostanziosa e approfondita analisi, solo un tour vorticoso tra dirompenti tecnologie.
A parte la seccante assenza di novità, in tutto questo tecno-turismo qualcosa di valore si trova. È chiaro che Bastani scrive per un pubblico popolare, e informare sempre più persone delle attuali possibilità offerte dalla tecnologia serve a generare discussione. Il dibattito pubblico pro o contro il redivivo “socialismo” resta però intrappolato negli schemi del ventesimo secolo. Le discussioni sul socialismo ruotano sostanzialmente attorno a concetti come nazionalizzazione dell’industria, ampio stato sociale e le cooperative di lavoratori. Raramente il dibattito comprende il progresso tecnologico che procede tutto intorno a noi. In quest’ampio contesto, si può ricavare qualcosa di utile anche solo spiegando quali sono le possibilità attuali e le prospettive future.
Ma tanta semplicità è pericolosa. Qualunque sia il valore monetario ottenibile dal fatto di capire che un brillante futuro tecnologico è possibile il fatto è che nascondiamo la complessità frattale del percorso da fare spazzandola sotto il tappeto. La cosa si nota particolarmente quando Bastani tratta della questione ambientale (attirando a sé molte critiche); io però credo che tale ingenuità vada vista all’interno della sua teoria del cambiamento.
Per Bastani, la via principale all’abbondanza passa dall’elettoralismo populista: usare il potere dello stato per accelerare il progresso tecnologico o per rimuovere le barriere che creano scarsità artificiale liberando l’abbondanza. Un approccio pesantemente tarato. Anche lasciando da parte le tipiche critiche anarchiche alla democrazia rappresentativa, tecnologie dell’abbondanza e democrazia liberale sono in conflitto tra loro. La democrazia liberale è per molti versi il risultato della realtà materiale del suo tempo. La mobilitazione di massa necessaria alla produzione e alla guerra industrializzata richiedeva cose come un’élite fortemente meritocratica, decentramento e un sistema di pesi e contrappesi; tutto ciò era necessario a gestire la complessità ed evitare che la rottura del processo di produzione e distribuzione minacciasse lo stato nazionale. Oggi siamo distanti anni luce da quell’equilibrio proprio dell’ottocento, primo novecento.
Qual è l’impatto di tecnologie rivoluzionarie come il nucleare nei confronti di questo futuro? Bastani evita le solite banalità marxiste sul fatto che tecnologie come l’intelligenza artificiale, l’ingegneria genetica e i viaggi spaziali a basso costo servirebbero solo a dare più potere ai ricchi, ma non ne deduce che un tale potere costituirebbe una minaccia esistenziale per la democrazia liberale.
Certo questo non significa che queste tecnologie sono di per sé un male. Ma prospettare gli obiettivi della sinistra nel ventunesimo secolo e non riconoscere affatto che i tantissimi modi in cui il meccanismo principale con cui si dovrebbe arrivare a tali obiettivi potrebbe minare tale prospettiva è incredibilmente ingenuo. Capisco che Bastani non vuole intaccare il suo ottimismo, e interrompere il libro per illustrare i possibili fallimenti ne spezzerebbe il ritmo, ma potrebbe almeno riconoscere che ci sono dei rischi. Capisco che non può buttare giù una rapida citazione de La ricchezza delle nazioni se non per darsi arie, o Il principe se non per cercare un equivalente geopolitico interplanetario, ma potrebbe almeno farne un cenno lasciando ad altri l’approfondimento.
Questo è, secondo me, il difetto maggiore del libro, il fatto che Bastani non voglia affrontare la complessità della situazione. Tutte le questioni principali che noi abbiamo previsto per il ventunesimo secolo sono altrettanti problemi perché ci mancano i mezzi per fare un coordinamento su vasta scala. Il problema del coordinamento è legato direttamente alla questione della complessità. Certo Bastani fa riferimento a cose come la governance locale e al fatto che l’attuale modello capitalista combina il peggio del capitalismo e del socialismo di stato, ma oltre non va. Questa riluttanza ad indagare queste questioni mi fa dubitare sulle possibilità di sviluppo di questi piani utopici: giunta a maturazione, la società informatica sarà molto più complessa e dinamica di quanto non sia oggi.
Arrivo così alla questione del denaro. Tolte alcune banalità sulla socializzazione della finanza e la costituzione di cooperative, Bastani ignora completamente il denaro. Certo è una pedanteria dire che anche in un lontano comunismo utopico il denaro potrebbe ancora esistere per gestire quel poco di scarsità che avanzerebbe, ma ignorare completamente la questione è preoccupante. Il successo riscosso dal liberalismo, risultato di una migliore capacità di gestire i problemi relativi all’azione collettiva e al denaro, rappresenta una tecnologia chiave di questo processo. È preoccupante che non si citi la cosa, visto che l’avvicinarsi dell’abbondanza rende la società molto più complessa. Il mio sospetto è che Bastani abbia un’opinione marxisticamente troppo totalizzante per ammettere che la tecnologia potrebbe essere ancora utilizzabile una volta giunti all’abbondanza, e questo sia perché teme di apparire debole agli occhi dei liberal e sia perché, da marxista, lo preoccupa la possibilità che il capitalismo impazzisca.
Queste preoccupazioni sono radicate in un modo di pensare a breve termine che favorisce posizioni retoriche di breve termine a discapito di qualunque tentativo di capire le dinamiche di fondo. Nonostante i difetti, il liberalismo è riuscito a capire così bene tali dinamiche semplicemente perché è riuscito ad afferrare alcune intuizioni chiave su come superare i problemi di coordinazione, e questo gli ha permesso di prendere il posto di ideologie rivali. Buttar via tutto quello che loro hanno scoperto così da non dover aggiornare il proprio concetto della realtà è un atto di pigrizia incredibile.
Quel breve momento di panico che si ha quando ci si accorge che qualche economista “borghese” ha visto giusto è più che controbilanciato dal fatto che tale scoperta chiarisce le idee e fornisce la spinta per andare avanti (e non importa se la storia economica del ventesimo secolo è più favorevole alle idee di sinistra di quanto non si creda comunemente). Un’immagine più chiara delle possibilità, ovviamente, supera ogni falsa rappresentazione del mondo, a prescindere da quanto quest’ultima possa apparire psicologicamente appagante. Ironicamente, i postcapitalisti riconoscono l’esistenza di questo dilemma nei conservatori e nei liberal, entrambi incerti tra il sostegno alla tecnologia e la coscienza di come lo sviluppo tecnologico possa minare i valori e le strutture sociali che loro considerano essenziali.
Ma questo sbilanciamento tra valori da mantenere e possibilità offerte non deriva da un tentativo di limitare il progresso. È anche il frutto di un disagio che frena i tentativi di dare forma al futuro. Ne è un esempio il dibattito pubblico sul “problema” dei robot che ci rubano il lavoro e la preoccupazione di tanti che questa tecnologia ci renderà disumani. L’idealizzazione di una natura umana da non toccare, da lasciare così com’è, limita la fantasia di chi usa tali finzioni per giustificare le attuali strutture di potere. In tali circostanze, chi è succube del potere tende strutturalmente a nascondere quelle alternative che potrebbero risultare popolari. Una tale sconnessione rende molto più facile vincere la battaglia culturale attorno a certe questioni in quanto il nemico ha una scarsa conoscenza del campo di battaglia. Forse un tempo era più facile immaginare la fine del capitalismo, mentre oggi per un capitalista è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del lavoro salariato. Le potenzialità tecnologiche di cui parlano Bastani e i suoi compagni di viaggio ci stanno portando verso una sorta di realismo postcapitalista (fatto di sole alternative!), uno stato delle cose in cui l’offerta si moltiplica enormemente grazie al progresso tecnologico. Le persone più adatte a navigare in questo spazio sono quelle che credono che le alternative esistano e che valga la pena esaminarle.
Ma la fluidità che ne risulta è in conflitto diretto con l’elettoralismo. Tradurre conoscenze complesse e fluide in un linguaggio accessibile alle masse è difficile; convincere l’individuo che una certa cosa è possibile è impresa ardua, soprattutto in un’epoca, come la nostra, fatta di incertezze, complessità e imbonitori. Dubitare di ogni informazione è diventato un esercizio di epistemica igiene di base; è diventato d’abitudine dubitare di ciò che ci viene offerto e cercare punti di vista alternativi. Quest’abitudine è in conflitto diretto con una politica elettorale radicale, che accumula massa per poi farne uso.
C’è poi il fatto che per molti versi l’elettoralismo non serve a vincere (o anche solo andare avanti). Un esempio lo dà lo stesso Bastani verso la fine del libro, laddove accenna ad una sorta di “indice dell’abbondanza”, un marcatore economico da usare al posto del prodotto interno lordo per capire a che punto ci si trova sulla strada di un’economia postcapitalista. Questo indice si baserebbe sull’efficienza energetica, la quantità di lavoro utilizzata in economia, l’ambiente, la capillarità e l’accessibilità ai servizi di base, il tempo libero, la salute, l’aspettativa di vita, la felicità eccetera.
Certo sarebbe utile avere queste informazioni, ma non capisco perché dobbiamo avere il permesso dello stato. Sono sicuro che dei volontari potrebbero mettere assieme questi dati per ogni paese sviluppato, oltre che per gran parte dei paesi in via di sviluppo, semplicemente utilizzando e integrando i dati disponibili pubblicamente. Per analisi più dettagliate potrebbero essere necessario l’aiuto di organizzazioni di volontariato o dello stato, ma questa non è una ragione per avviare questo progetto immediatamente. Perché cercare di convincere la burocrazia o gli elettori che questi dati statistici sono utili se possiamo fare tutto noi da soli?
Un simile approccio al cambiamento, quando si può ottenere l’abbondanza (in alcune zone) senza conquistare uno spazio fisico, ha un senso quando si vuole sbloccare la situazione, soprattutto per mettere in opera un cambiamento culturale. È molto più facile convincere gli altri che il proprio sistema funziona se si ha qualche esempio prototipico funzionante da mostrare. Va da sé, poi, che se si vuole che le persone sostengano e diffondano il cambiamento sociale è più facile che ciò accada se queste persone non hanno necessità fisiche che le obbligano a impiegare gran parte del tempo al lavoro. Come il capitalismo ha soppiantato il feudalesimo con la sua dinamica di libero mercato, così, viene da pensare, una libera abbondanza potrebbe premiare l’uscita dal capitalismo. In tal caso, ogni briciola di abbondanza, per quanto piccola, diventa preziosa. Una vittoria che passi dalla via elettorale è forse possibile, ma solo dopo l’affermazione di sacche postcapitaliste, non prima.
Questa impossibilità ad andare oltre l’analisi marxista per investigare le mille dinamiche in gioco condanna il libro all’oblio. Se, per certi versi, può servire ad allargare la finestra di Overton, nel lungo termine l’impossibilità di darci qualche indicazione riguardo le sfide incredibilmente difficili che ci aspettano significa che questi modelli, così semplicistici, difficilmente sopravviveranno. Non sono le visioni utopiche che ci mancano, ma un’analisi sistematica della via da seguire e dei pericoli insiti. Questo libro è molto buono ad instillare le prime, ma è un fallimento quanto al resto.