Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 22 ottobre 2013 con il titolo Infrastructure is Not “Progressive”. Traduzione di Enrico Sanna.
Ammetto di non capire cosa passa per la testa dei “progressisti”. Da un lato, si lamentano sempre, e giustamente, del potere delle grandi aziende e del dominio corporativo sulla nostra società e l’economia. Dall’altra hanno parole nostalgiche per quelle politiche governative che hanno reso possibile proprio il dominio corporativo.
Lo vediamo nei trenta secondi di spot in cui Rachel Maddow della MSNBC, in piedi di fronte alla diga Hoover, ricorda nostalgicamente i tempi in cui lo stato faceva “grandi cose”. Ma lo dimostra anche Michael Moore quando sostiene la necessità di un “New Deal Verde” che converta le linee di assemblaggio di Detroit alla produzione di treni ad alta velocità.
E lo vediamo infine in quello che è un comunicato stampa appena velato dell’associazione americana degli ingegneri (Jeremy Dennison, “America’s Crumbling Infrastructure,” Slate, 7 ottobre) in cui si definisce l’epoca del secondo dopoguerra “l’età d’oro delle infrastrutture americane” e si mette in guardia sulle disastrose conseguenze se si permette che le infrastrutture continuino a deteriorarsi. Ah, i giorni gloriosi del gigantismo, un sistema intrecciato costituito da mostri aziendali e lo stato leviatanico, tutti dipendenti dai massicci progetti infrastrutturali, ferrovie, aviazione civile e autostrade, creati per servire gli interessi di un’economia corporativa dominata da un oligopolio di qualche centinaio di aziende.
Il sistema ferroviario nazionale è nato con la concessione alle compagnie ferroviarie di un territorio grande quanto la Francia. Non solo la striscia necessaria a mettere in opera i binari, ma anche due fasce ai lati estese molte miglia, aree che le compagnie ferroviarie rivendettero quando l’apertura delle nuove linee fece schizzare i prezzi alle stelle. Secondo Alfred Chandler, il sistema ferroviario creò i prerequisiti indispensabili di un’economia nazionale per la produzione di massa fatta di grandi industrie che servivano un mercato di dimensioni continentali, con un’enorme rete distributiva all’ingrosso e al dettaglio. Se lo stato non avesse incentivato la nascita di un sistema ferroviario di tali dimensioni, è probabile che la seconda rivoluzione industriale (con l’incorporazione delle macchine elettriche nel processo industriale) avrebbe seguito un corso completamente diverso. Al posto di un’industria per la produzione di massa sullo stile delle Oscure Fabbriche Sataniche, avremmo avuto un’economia nazionale composta da un centinaio di distretti industriali con macchinari elettrici ad uso promiscuo, integrati con la produzione artigianale e destinati a produrre per il mercato locale secondo la richiesta. In altre parole, avremmo avuto un’economia senza marketing di massa, niente pubblicità assillanti, niente vendite rateali e niente obsolescenza programmata.
Queste patologie furono ulteriormente aggravate dai progetti infrastrutturali del ventesimo secolo. Le infrastrutture dell’aviazione civile sono state create di sana pianta con fondi federali. E i jumbo sono diventati una possibilità economica solo perché la produzione di bombardieri durante la guerra fredda permetteva all’industria aeronautica di produrre massicciamente ammortizzando così le enormi spese iniziali necessarie. La centralizzazione postbellica dell’economia americana, con le piccole industrie conserviere e distillerie spazzate vie dai centri commerciali a scatolone e la chiusura delle piccole botteghe in tutta l’America, fu resa possibile dalla nascita delle autostrade e dai trasporti a lunga percorrenza che ne furono una conseguenza.
E non dimentichiamo la cultura dell’automobile, anch’essa quasi interamente prodotta dalle politiche infrastrutturali postbelliche. Con uno dei più grandi progetti di ingegneria sociale nella storia, l’America ha distrutto un funzionante tessuto economico misto incentivando le autostrade e lasciandosi alle spalle un deserto fatto di urbanizzazioni monouso e sobborghi degradati. Le parole di Dennison suonano stranamente appropriate: “Senza una rete di strade e ponti funzionanti, l’economia si bloccherebbe, sarebbe come un ingorgo automobilistico all’ora di punta su un’autostrada piena di buche.”
Il collasso delle infrastrutture americane, avverte Dennison, potrebbe costare oltre 800.000 posti di lavoro e miliardi di dollari del prodotto interno lordo. Da notare che questi due parametri indicano l’input necessario a produrre un certo standard di vita, non lo standard di vita in sé. I posti di lavoro, soprattutto, rappresentano la quantità di lavoro occorrente a produrre un certo standard di vita. Ma anche il pil, perché più costa fare qualcosa e più il pil cresce. Parafrasando Frédéric Bastiat, il pil è il costo totale delle finestre rotte.
Il problema non è che non c’è un numero sufficiente di persone che ha un lavoro, o che non si lavora per un numero sufficiente di ore. Il problema è che datori di lavoro capitalisti e stato capitalista concorrono a far sì che una persona debba lavorare quaranta ore la settimana per poter vivere con un minimo di agio. Occorrerebbe che i lavoratori si appropriassero di tutti i benefici dati dalla loro accresciuta produttività, e che le ore di lavoro, ridotte, fossero distribuite equamente. Invece si permette alle aziende di servirsi della “proprietà intellettuale” per blindare l’aumento della produttività e ricavarne una rendita.
Dovrebbero festeggiare questa economia rilocalizzata, postcapitalista, p2p, resa possibile dalle nuove tecnologie, e invece i progressisti vogliono mantenere in piedi questa macchina di Rube Goldberg che è lo stato, facendo lavorare inutilmente una gran massa di persone.