Sterilizzazioni e Corte Suprema

La sentenza del caso Buck contro Bell

Di Erich Fleischmann. Originale pubblicato il 2 maggio 2018 con il titolo Sterilization and the Supreme Court: Buck vs. Bell. Traduzione di Enrico Sanna.

Tra una settimana cadrà il 91º anniversario del verdetto della corte suprema sul caso Buck vs. Bell. Certo novantuno, che neanche fa cifra tonda, non è il numero migliore per celebrare un ricordo, ma neanche l’oggetto del ricordo è dei migliori, e forse viene a proposito. Io credo che questo sia il momento più adatto a rispolverare un fatto orribile del passato, sperando che serva da memento.

Nel 1924, lo stato della Virginia legiferò la sterilizzazione obbligatoria delle persone mentalmente disabili. Il primo caso fu quello di Carrie Buck. Figlia di una donna mentalmente disabile, aveva avuto qualche problema con le autorità per prostituzione e condotta immorale. In seguito fu adottata e crebbe con i genitori adottivi. Ma dopo aver subito uno stupro dal loro nipote e aver dato alla luce un figlio illegittimo, fu etichettata “debole di mente e incline alla promiscuità” e internata nella colonia statale per epilettici e deboli di mente della Virginia. Il direttore della colonia, Albert Priddy, inoltrò richiesta di sterilizzazione al consiglio d’amministrazione. Priddy morì, ma il consiglio decise di procedere comunque alla sterilizzazione, che passò sotto la supervisione di John Hendren Bell. Il tutore di Buck fece appello al tribunale distrettuale della contea di Amherst, poi alla corte d’appello della Virginia, ed infine alla corte suprema degli Stati Uniti.

Secondo l’avvocato d’ufficio di Buck, Irving Whitehead, negare a Buck il diritto di riprodursi andava contro la clausola del giusto processo del quattordicesimo emendamento. Per chi non la conoscesse, la clausola nelle intenzioni dovrebbe essere una protezione contro gli attentati alla vita, la libertà e/o la proprietà da parte dello stato. Purtroppo, come capita spesso quando una persona è costretta a combattere lo stato servendosi delle sue leggi e dei suoi tribunali, la corte suprema decise semplicemente di ignorare e/o interpretare la clausola. Il due maggio 1927, la corte suprema degli Stati Uniti dichiarò l’effettiva costituzionalità del capitolo 46B del codice della Virginia, intitolato “Sterilizzazione sessuale degli internati negli istituti della Virginia”. Il giudice Wendell Holmes Jr. scrisse nella motivazione: “sarebbe strano se [il bene pubblico] non potesse chiedere un sacrificio minore a chi già indebolisce lo stato.” E poi: “tre generazioni di imbecilli sono più che sufficienti.” Terminò citando quello che per lui era un precedente: “il principio alla base dell’obbligo di vaccinazione è sufficientemente ampio da comprendere anche l’asportazione delle tube di Fallopio.”

Quasi sessant’anni dopo la sentenza, vennero alla luce due aspetti del caso che, se veri, contribuirebbero a complicarne ulteriormente il lascito. Il primo, come sostenuto dal medico Paul A. Lombardo, è che Carrie Buck non era né “debole di mente” né “incline alla promiscuità” (non che nessuno dei due avrebbe mai giustificato il suo trattamento). In realtà, Carrie fu rinchiusa in un istituto perché, afferma Lombardo, i genitori adottivi provavano vergogna e imbarazzo per lo stupro e la conseguente gravidanza. Il secondo è che Irving Whitehead aveva un enorme conflitto di interessi. Non solo faceva parte del consiglio di amministrazione della colonia, ma ne era anche consulente legale. Ed aveva una vecchia amicizia con Albert Priddy e Aubrey E. Strode, i due avvocati di parte avversa quando il caso arrivò al tribunale distrettuale della contea di Amherst. Priddy scrisse anche la bozza della legge sulla sterilizzazione dello stato della Virginia. Non è assurdo dire che tutte le possibilità erano avverse a Carrie. La probabilità di una falsa diagnosi e le collusioni di Whitehead fanno del caso non solo un’atrocità, ma anche un vero complotto da parte dello stato e delle istituzioni contro una povera innocente.

Gli effetti della sentenza si moltiplicarono, e decine di stati aggiornarono gli statuti sulla sterilizzazione o ne approvarono di nuovi. Harry Laughlin, il cui programma, o una copia molto simile, fu adottato in Virginia, ricevette pubblicamente gli elogi del Terzo Reich. Fu perfino premiato con un dottorato onorario presso l’Università di Heidelberg per la sua opera in materia di “igiene razziale”. Ovviamente, questa parte di storia americana è stata spazzata via sotto il tappeto grazie soprattutto al lavaggio dei programmi scolastici. Ma è una parte consistente: la storia della sterilizzazione obbligatoria si intreccia con quella degli Stati Uniti. Come dice Thomas C. Leonard, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento il movimento progressista poneva tra gli elementi centrali del suo programma l’eugenetica accanto al controllo dei salari e le restrizioni all’immigrazione. Per ammissione dell’ufficio Contabilità Generale, tra il 1973 e il 1976 quattro delle dodici amministrazioni per la salute della popolazione indiana hanno sterilizzato oltre 3.400 donne indiane senza il loro consenso. Ancora nel 2010, secondo le accuse, diverse detenute di due carceri californiane sarebbero state “spinte” a farsi sterilizzare. Considerato tutto ciò, non resta che sperare che il due maggio, anniversario di quella vergogna della giustizia e della decenza umana che è la sentenza Buck contro Bell, serva a non dimenticare tutte le vittime di questa arbitraria prepotenza, e a dedicare le nostre forze al rifiuto di ogni futura violenza.

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