Di David S. d’Amato. Originale pubblicato il 31 gennaio 2018 con il titolo Decentralization and the Poverty of Our Political Language. Traduzione di Enrico Sanna.
Il dialogo politico soffre molto di una carenza di chiarezza categoriale. Il problema è in parte attribuibile al carattere evasivo dei concetti politici, che coinvolgono e mescolano (spesso incurantemente) l’empirico, lo storico e il normativo. La colpa è anche del fatto che la politica è vista come gioco, o sport, per cui schierarsi diventa più importante della ricerca della verità o della chiarezza. Una volta che ci si schiera per una squadra, ci si pone sistematicamente al riparo da tutte quelle informazioni che potrebbero compromettere la fede, come anche le scansioni cerebrali hanno potuto dimostrare. Ma vale ancora la pena di aspirare ad una chiarezza concettuale o categoriale se non vogliamo continuare a parlare in modo non consequenziale, con rabbiosi scambi di opinioni di parte.
Una persona che identifica il suo pensiero politico con il decentralismo ha difficoltà a trovare un posto all’interno dell’attuale tassonomia ideologica. Dove porsi? A destra o a sinistra? Tra i liberal o tra i conservatori? I sostenitori del decentramento dicono che la centralizzazione, con le sue mastodontiche istituzioni, genera e favorisce l’irresponsabilità, che gli obiettivi socialmente utili sono impediti e non il contrario. Come nota l’intellettuale anarchico Paul Goodman, “In un sistema centralizzato, l’obiettivo di un’organizzazione è il proprio bene, non quello delle persone (a meno che queste non si identifichino con l’organizzazione). Le persone diventano il personale.” Pur essendo di sinistra, Goodman quando parla del “carattere centralizzatore dell’organizzare” non ricorda affatto gli attuali liberal e progressisti, che hanno fatto della centralizzazione gerarchica, tramite istituzioni monolitiche distanti, praticamente una religione. Ricorda invece moltissimo gli attuali libertari, tranne per il fatto che le sue analisi sono piene di critiche taglienti contro l’attuale capitalismo, che lui vede in contrasto netto con le “teorie economiche di Adam Smith”. Questo distinguo sorprende la sinistra politica (comunque la si definisca), ma non dovrebbe perché soprattutto negli Stati Uniti è sempre esistita una tradizione individualista di sinistra orientata al mercato.
Le forti correnti decentraliste sono parte importante del DNA della destra e della sinistra, così come le forze contrarie; soprattutto per questa ragione etichette come “sinistra” e “destra”, di per sé, non spiegano gran parte della sostanza, non riescono ad esprimere qualcosa di particolarmente significativo riguardo l’ordinamento politico e sociale. Il nazionalsocialismo tedesco e il fascismo italiano sono esempi di ciò che potrebbe definirsi centralismo di destra, mentre il libertarianismo americano di libero mercato è un esempio di decentralismo di destra. Dall’altro canto, maoismo, comunismo sovietico e i vari comunismi autoritari del ventesimo secolo si possono considerare centralismi di sinistra, mentre l’anarchismo classico, certi movimenti localisti e antiglobalizzazione, e taluni aspetti del movimento cooperativo potrebbero rientrare nella categoria di decentralismo di sinistra.
Ma a ben vedere anche questo tentativo di classificazione appare fragile. Non è affatto chiaro, per esempio, per quale ragione il libertarismo debba essere collocato a destra, se non, forse, perché sarebbe una reazione, almeno nel contesto americano, al progressismo e al liberalismo del New Deal, fenomeni che non necessariamente sono di sinistra. Allo stesso modo, associare nazismo e fascismo alla destra, dimenticando l’estrazione socialista di entrambi, significa fare una critica inadeguata e di parte. Resta il problema, la vaga sensazione che il bisogno di classificare in termini di destra e sinistra, più che chiarire, offuschi il discorso.
Forse oggi i libertari rappresentano l’avanguardia del decentralismo, anche se la loro difesa strenua del capitalismo corporativo li smentisce. Al contrario, il messaggio anticorporativo e anticapitalistico della sinistra è storicamente legato al decentralismo, combatte poteri monopolistici e privilegi particolari concessi ai ricchi, e favorisce forme di produzione locali e cooperative. Il decentralismo cadde in disgrazia tra la fine del diciannovesimo e il ventesimo secolo, quando il movimento socialista globale abbracciò il “gigantismo industriale”, preda di uno spirito che trascendeva l’ideologia politica di quel periodo, che si accostava alla centralizzazione gerarchica con animo scientifico. Nella sua biografia del sedicente anarchico Pierre Joseph Proudhon, George Woodcock nota come la sinistra abbia preso la strada sbagliata “accettando acriticamente il fenomeno dell’organizzazione industriale centralizzata e di larga scala.” “Ora che conosciamo i mali sociali, economici e ecologici del gigantismo industriale”, Proudhon, il cui anarchismo incorpora tratti decentralizzanti e federativi, appare più importante che mai.
Proudhon, così come gli individualisti americani che lo seguivano (Benjamin Tucker, ad esempio), insistevano nel notare che economia di mercato non significa necessariamente economia capitalista. Molto dipende da come definiamo il capitalismo, se lo consideriamo un modo come un altro di esprimere il concetto di libero mercato o se lo definiamo in termini di disuguaglianza, sfruttamento e privilegio (come fanno spesso i socialisti di ogni genere). In un dialogo, in un dibattito, non facciamo molta strada se non spieghiamo che stiamo usando lo stesso linguaggio, cosa che troppo spesso non facciamo. L’attuale politica americana sembra tendere verso un rinnovato interesse nelle idee decentraliste, anche solo come punto di partenza. Nella sua introduzione al libro di E. F. Schumacher, Small Is Beautiful, Theodore Roszack dice: “Il gigantismo è la nemesi dell’anarchismo, perché è dal gigantismo che vengono impersonalità, insensibilità e la voglia di concentrare il potere astratto.” Se le attuali incoerenti categorie politiche mettono in antitesi anarchismo e conservatorismo, è vero che il conservatorismo alla Russell Kirk fa esattamente lo stesso.