Di Peter Jefferson. Originale pubblicato il 28 novembre 2017 con il titolo Nonviolence and the Benefit of ‘Cowardice’. Traduzione di Enrico Sanna.
Sesto saggio del November Mutual Exchange Symposium: Freedom of Speech and Political Violence
Quando si parla di nonviolenza e delle sue varie espressioni, le reazioni sono spesso di indignazione o derisione. I sostenitori della violenza politica non solo non capiscono il nostro disaccordo, ma spesso lo considerano un atto deprecabile e codardo. L’accusa di “codardia” mi affascina in modo particolare e cercherò di esaminarla attentamente. A prescindere dagli intenti, violenza e nonviolenza politica comportano rischi e convinzioni simili. Entrambe vogliono che persone in carne ed ossa siano messe in prima linea con incerte possibilità di successo. Entrambe vogliono che si mettano a confronto in modo piuttosto disperato interessi morali e interessi materiali. E però credo che ci sia qualcosa di vero nell’accusa; credo che ciò che i sostenitori dell’intervento violento percepiscono come “codardia” sia l’umiltà implicita, strutturale della nonviolenza. La violenza politica richiede la fede dogmatica nella propria correttezza, bisogna credere che i rivali non abbiano nulla da offrire e che la violenza sia efficace. È vero che noi siamo lontani dalle certezze e dalla fiducia dei fautori della violenza. Il fautore della nonviolenza politica non vuole annientare i rivali, bensì coesistere. Questo tratto, percepito come “codardia”, è il tratto distintivo della nonviolenza politica.
Prima di prendere in esame l’accusa di codardia, è bene esaminare il panorama. In termini di obiettivi politici, violenza e nonviolenza hanno le stesse probabilità di successo. In condizioni estreme, la violenza può rendere invisibili certe opinioni (con il confino o l’assassinio), cosa che non si può fare con la nonviolenza. Ma sia l’azione violenta che quella nonviolenta richiedono l’accettazione del rischio personale. Che si tratti di azioni violente o nonviolente, il danno può essere serio. Anche senza conseguenze fisiche, il danno può essere psichico o sociale. Non c’è dubbio che, a prescindere dalla loro efficacia politica, le proteste degli antiabortisti contro le donne che entrano in clinica fanno psicologicamente male. Detto questo, però, ci sono casi marginali che devono essere considerati separati dai più ampi obiettivi politici. Una volta che si diffondono tra il pubblico, le idee sono difficili da cancellare. Difficile prevedere quali possano essere le conseguenze delle azioni pubbliche sulla cultura politica prevalente. A volte la violenza estrema può trasformare l’espressione pubblica di certe idee in un atto esecrabile impedendone il successo politico, ma può accadere che la reazione sia così aspra da attirare su di sé la condanna e favorire la diffusione di quelle idee. Ciò che conta è come reagiscono gli altri. Perché l’uditorio dell’azione politica è formato da persone in carne ed ossa, e il successo o il fallimento si riduce all’interpretazione prevalente, che si tratti di atti violenti o nonviolenti.
Di questo principio esistono molti esempi pratici. In Vietnam, gli Stati Uniti impiegarono una forza smisurata e un incredibile vantaggio militare. Massacrarono oscenamente la popolazione e distrussero l’economia del paese. Ciononostante, per i vietnamiti la violenza era talmente assurda che questi continuarono a sacrificare vite umane nella resistenza fino a ricacciare l’invasore. Ma ci sono casi in cui il vantaggio militare riesce a rendere la resistenza così dispendiosa che la popolazione invasa preferisce arrendersi. Il satyagraha di Gandhi riuscì a rendere talmente difficile e immorale la dominazione britannica che questa dovette cessare. D’altro canto, però, il movimento nonviolento non riuscì ad impedire la proliferazione nucleare negli Stati Uniti. E non si sa quanto contribuì la resistenza nonviolenta al movimento per i diritti civili in America. L’obiettivo non è capire cosa fu politicamente efficace in questi casi, ma notare che forse i risultati non erano facilmente prevedibili e che il successo tanto dell’azione violenta quanto di quella nonviolenta dipende dall’interpretazione che ne dà il pubblico.
Molti sostenitori dell’azione violenta capiscono ciò, e propongono strategie che facciano uso di azioni ad un tempo violente e nonviolente. Citano strategie nonviolente, di Gandhi e King ad esempio, accompagnate da strategie violente volte ad attirare l’attenzione del potere. A questo proposito, ci sono alcune cose da notare. Vale la pena fare alcune considerazioni su questa osservazione. Una è che non attribuisce particolari vantaggi né alla violenza né alla nonviolenza. Sembra poi probabile che ci siano rilevanti differenze tra le strategie che puntano a cambiare le istituzioni politiche stabilite e quelle che mirano ad un più ampio cambiamento culturale (le due cose ovviamente non sono del tutto indipendenti). Infine, sembra presupporre, in maniera per niente scontata, che violenza e nonviolenza agiscano in armonia piuttosto che in contrasto. Forse una violenza coordinata può rendere preferibili le forze nonviolente e motivarne la scelta; o, al contrario, potrebbe togliere sostanza alla legittimità percepita delle forze nonviolente. Un’azione violenta potrebbe spaventare le persone e costringerle a rompere la pace istituita, ma anche spingerle nel baratro della guerra civile. Il punto è che facendo così generalmente si tenta di aggirare l’analisi delle condizioni politiche necessarie al successo di una qualunque strategia, e in questo senso si sbaglia.
Proprio perché le strategie violente e nonviolente sono spessissimo in contrasto e incompatibili tra loro, dobbiamo stare in guardia di fronte all’immoralità della “diversità nelle tattiche”, soprattutto quando questo significa alzare le mani e rinunciare a qualunque tattica. Ma forse questo ci priva di strumenti, solidi o sistematici, con cui decidere tra i due approcci. Vorrei far notare che la “codardia” percepita insita nella nonviolenza ha un vantaggio solo, per quanto difendibile. Per quanto possano fare molti danni, le tattiche nonviolente almeno lasciano spazio alle altre parti. Le strategie nonviolente si basano sul dialogo immediato, si rivolgono alle menti con il fine di attivarne la coscienza e non di aggirarne o distruggerne la capacità di pensiero. Dato che l’obiettivo dell’azione politica è sempre la cattura del consenso pubblico, la nonviolenza consente di concentrarsi sulla sostanza, di inquadrarla, e di usare efficacemente le armi retoriche. Una strategia nonviolenta va al nocciolo della questione politica in maniera diretta; invece di dedicare risorse e energie alla distruzione del nemico, ci si dedica alla questione principale (occupare una terra, difendere uno stile di vita, come relazionarsi con gli altri, evidenziare la violenza e l’irrazionalità degli avversari). Le strategie basate sulla violenza esulano dall’obiettivo, a meno che il fine non sia la violenza in sé.
Per tornare, se una strategia nonviolenta non ha, da sola, un particolare vantaggio in termini di efficacia politica, ha però il vantaggio che si concentra direttamente sull’oggetto del discorso mostrando umiltà (e quindi disponibilità al dialogo) riguardo le richieste avanzate. L’umiltà della nonviolenza è ciò che la rende “codarda” agli occhi di chi sostiene la via violenta, ma è anche ciò che permette di incassare il più ampio sostegno. Ed essendo violenza e nonviolenza spesso strategicamente incompatibili, non serve discutere del loro impiego combinato. Lo svantaggio della nonviolenza è che ha scarsa efficacia quando si tratta di rappresentare persone marginali; mirando direttamente all’ambito politico, dimostra tanto più tutta la sua debolezza quanto più è isolata alla vista e al discorso politico. Ci sono infine casi in cui né la violenza né la nonviolenza hanno possibilità di successo, situazioni in cui a determinare l’azione sono soprattutto le frange marginali della società. Credo che in questi casi la violenza possa avere più probabilità di successo.
In casi marginali, invisibili al pubblico, dove l’obiettivo è la protezione fisica delle persone da un pericolo imminente piuttosto che il raggiungimento di un traguardo ampio, la violenza è quasi certamente la scelta più strategica. In particolare in quelle situazioni criminali in cui il pubblico (e il sistema giudiziario) già riconosce l’atto violento come illegittimo, il responsabile manca già dell’approvazione pubblica e decide di agire ciononostante (forse con la speranza di evitare il coinvolgimento del pubblico). In questi casi, appellarsi al capitale sociale e alla coscienza pubblica sarebbe strategicamente inetto. Basta questo ad illustrare la posizione strategica dell’intervento violento: funziona benissimo quando non ci si può appellare al pubblico, o nel tentativo di farlo. Gli obiettivi politici, soprattutto quelli che hanno attinenza con la direzione della cultura popolare, devono richiamare l’attenzione del pubblico perché riguardano soprattutto ciò che fa il pubblico. La violenza è più efficace quando ha il sostegno popolare, o quando si svolge lontano dagli occhi della popolazione, dunque non è uno strumento adeguato a conquistare un ampio sostegno pubblico. La natura indirettamente politica della violenza ne fa uno strumento utile ad evitare la distruzione di vite umane, ma la sua efficacia cala man mano che la politica e il potere sociale assumono centralità. Quando il successo politico in qualche modo non rappresenta l’obiettivo, la protezione delle vite umane degli emarginati diventa la cosa relativamente più importante. In quelle situazioni in cui sono coinvolte istituzioni che godono del sostegno del pubblico (o della sua accettazione passiva), o che esercitano un certo ascendente, il successo dell’opposizione è poco garantito. Di fronte a casi di deportazione o incarcerazione di massa, o quando si instaura un regime autoritario, con un vasto sostegno popolare, l’unico obiettivo fattibile è la protezione degli emarginati. La violenza ha un vantaggio unico quando si può evitare la politica, come in quei casi marginali tenuti lontano dagli occhi del pubblico; mentre la nonviolenza ha un vantaggio unico quando non si può fare a meno della politica, come nel caso di campagne volte al cambiamento culturale e istituzionale.