[Di Kevin Carson. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il primo ottobre 2015 con il titolo Will Free Markest Recreate Corporate Capitalism? Traduzione di Enrico Sanna.]
Saggio di apertura del forum di C4SS sul Mutuo Scambio, Ottobre 2015.
Secondo alcuni anarchisti e socialisti, in un ipotetico mercato non capitalistico, con un’economia di mercato non capitalista, le dinamiche del mercato porterebbero comunque alla restaurazione del capitalismo. Anarchisti non di mercato e socialisti sostengono che, in un mercato basato sulla concorrenza (anche con una distribuzione diffusa dei mezzi di produzione e una produzione in gran parte autonoma o cooperativa), esistono vincenti e perdenti, dove i perdenti chiudono l’attività e vanno a lavorare a salario dai vincitori, svendendosi. Il ragionamento tipico in questo senso è quello di Christian Siefkes, marxista libertario associato alla P2P Foundation (citazione presa da una discussione via email):
Sì, ci sarebbe commercio, e inizialmente questo commercio non sarebbe di tipo capitalista… Ma se partiamo dall’assunto che la produzione si baserebbe principalmente sul modello commercio/scambio, il risultato finale sarebbe il capitalismo perché alcuni produttori fallirebbero, perderebbero l’accesso ai mezzi di produzione e sarebbero costretti a vendere la loro forza lavoro. Se nessuno degli altri produttori è abbastanza ricco da assumerli, la loro sorte è la fame… che poi è ciò che è successo quando è emerso il capitalismo e che succede ancora nei cosiddetti paesi emergenti in cui non c’è abbastanza capitale per assumere tutta o gran parte della forza lavoro. Ma se ci sono altri produttori/individui disposti ad assumerli, ecco che si getta nuovamente il seme del capitalismo con la sua antinomia capitalista/lavoratore.
Dunque la questione è: può un mercato concorrenziale senza distorsioni capitalistiche, basato unicamente sullo scambio pacifico, trasformarsi in un mercato in cui la ricchezza è concentrata e prevale il lavoro salariato? Io sostengo di no.
Prima di continuare vorrei chiarire alcuni punti. Venendo dalla tradizione anarchica individualista di Thomas Hodgskin e Benjamin Tucker, considero il “capitalismo” qualcosa di distinto dal libero mercato, in quanto sistema in cui politica e economia sono controllati dai capitalisti e lo stato interviene nel mercato a loro favore. Un mercato capitalista, all’opposto di un mercato libero, è caratterizzato da diritti di proprietà artificiali, scarsità artificiali, sostegni economici e barriere monopolistiche d’ingresso o cartelli.
Mentre quando dico “liberi mercati” non intendo una società in cui le funzioni economiche sono organizzate tramite lo scambio di denaro (il “nesso di cassa”) o le aziende. Per “liberi mercati” intendo unicamente una società in cui lo scambio di denaro fa parte dell’insieme, ma senza specificare le dimensioni di questa parte. Credo in realtà che molto probabilmente in una società libera i bisogni economici sarebbero soddisfatti, più di oggi, attraverso attività non di mercato come la produzione diretta per uso personale in un ambito informale e famigliare, la produzione di sussistenza in grosse unità di coabitazione e produzioni collettive in unità multi-famigliari di vicinato, o “produzioni paritarie basate su beni comuni” in rete tra loro. Credo anche che, rispetto ad oggi, una porzione maggiore di risorse naturali sarebbero gestite in un regime di governo collettivo del tipo a cui Elinor Ostrom ha dedicato una profonda analisi. Man mano che si restringono le reti di sicurezza date dallo stato e dal datore di lavoro, man mano che stato e aziende si ritirano dalla sfera sociale, una fetta sempre più ampia della vita economica, secondo me, verrà gestita attraverso organizzazioni volontarie basate su beni comuni, condividendo rischi, costi e reddito sul modello delle gilde, delle società di aiuto fraterno e dell’economia dei campi aperti nei villaggi tardo medievali (che tanta parte hanno nelle teorie di Kropotkin). È per questo che, a differenza di Siefkes, non credo che lo scambio sarebbe alla base dell’organizzazione produttiva, parte della definizione di “economia di mercato”.
Detto ciò, torno alla questione iniziale: Il libero mercato porterebbe inevitabilmente ad una rinascita del capitalismo, con la concentrazione della ricchezza e il sistema salariale, ovvero ad un’economia corporativa dominata da poche organizzazioni gigantesche? Ancora una volta, no.
Riguardo l’economia corporativa, l’argomento solito (che mi è capitato di sentire da liberali e persona di centrosinistra in ritrovi come Salon o i commenti su Daily Kos) è che la Gilded Age fu un periodo di “laissez-faire” che diede vita spontaneamente ai giganteschi trust. E che le riforme progressiste tra Ottocento e Novecento miravano a riportare sotto controllo la sfrenata economia corporativa che dei trust era il risultato.
Ma l’economia corporativa a noi nota non emerge naturalmente come risultante delle forze di mercato; è una creatura dello stato. Il grande sistema ferroviario americano a lunga percorrenza, che rese artificialmente economico il trasporto a lunga distanza e creò artificialmente grosse aree di mercato e grosse imprese al loro servizio, fu il risultato di concessioni fondiarie alle compagnie ferroviarie. Questo sistema ferroviario nazionale ad alta capacità fu un prerequisito dell’ecosistema commerciale nazionale all’ingrosso e al dettaglio, il quale a sua volta fu il prerequisito dell’ascesa del sistema industriale a livello nazionale, che crebbe fino a servire il neonato mercato continentale. Perfino Alfred Chandler, difensore entusiasta del modello produttivo industriale di massa centralizzato del ventesimo secolo, ammette che distribuzione prima, e produzione centralizzata a livello nazionale poi, furono possibili grazie al ruolo giocato dallo stato nel creare un sistema nazionale di trasporti ad alta capacità.
Senza questi interventi, il sistema ferroviario avrebbe probabilmente preso la forma, come sostenuto da Mumford, di una moltitudine di reti locali variamente connesse tra loro in un sistema nazionale a capacità molto più ridotta. E con questa composita federazione di ferrovie locali la produzione industriale avrebbe probabilmente preso le forme dei distretti industriali.
A ciò aggiungiamo i dazi sui prodotti industriali, che fecero da muro dietro il quale fu facile trasformare l’industria in cartelli. Lo scambio e la condivisione dei brevetti fu un altro potente strumento dei cartelli (si vedano le origini della AT&T come sistema di brevetti della famiglia Bell, la cartellizzazione dell’industria di forniture elettriche casalinghe da parte della GE e lo scambio di brevetti con la Westinghouse, la nascita della RCA avvenuta mettendo assieme i brevetti dei cinque principali produttori americani di apparecchi radio, eccetera). L’effetto più importante delle normative dell’Era Progressista, infine, fu la possibilità per gli oligopoli industriali di ridurre la concorrenza sui prezzi e la qualità per la prima volta. Di particolare aiuto fu la Commissione Federale per il Commercio, che durante i primi vent’anni di attività trattò la vendita sottocosto e altre tattiche da guerra dei prezzi come “concorrenza sleale”.
L’applicazione tecnica ideale dei macchinari elettrici, conseguenza dell’invenzione del generatore e del motore elettrico, sarebbe stato il succitato sistema di distretti industriali: produzione artigianale con macchine elettriche relativamente economiche di uso generico destinata al mercato locale, passaggi frequenti da un prodotto all’altro e produzioni snelle e rapide secondo la richiesta. L’effetto cumulativo di tutti gli interventi statali elencati qua sopra fu il dirottamento di questa corrente tecnologica verso un canale completamente diverso: la produzione di massa con specifici e costosi macchinari per grandi produzioni; macchinari specializzati che producono enormi lotti dello stesso oggetto destinati alla distribuzione nazionale spinta dall’offerta, secondo una logica batch and queue.
In breve, l’economia aziendale su larga scala nata nel diciannovesimo secolo era, lo ripeto, in grandissima parte opera dello stato.
Andando indietro, penso che anche il sistema capitalista sia una creazione dello stato. La concentrazione della ricchezza e il dominio del lavoro salariato non nacquero dal libero mercato; richiesero la massiccia azione costrittiva dello stato.
Prima cosa, nell’unica storia che conosco un sistema in cui i mezzi di produzione sono perlopiù nelle mani di una piccola classe facoltosa e gran parte della popolazione lavora a salario non è conseguenza di un processo di selezione tra vincenti e perdenti tramite la concorrenza nel mercato. È conseguenza di un’enorme violenza. La concentrazione in poche mani di enormi proprietà terriere è figlia di un furto. Il sistema capitalistico europeo occidentale degli inizi dell’era moderna nasce dal “feudalesimo imbastardito” tardo medievale. Molti nobili terrieri si reinventarono come capitalisti agricoli. I nuovi stati assoluti, che riflettevano una costellazione di interessi che comprendevano i possidenti terrieri, le industrie minerarie e degli armamenti e i monopoli su concessione governativa, abrogarono i diritti consuetudinari che la maggioranza contadina aveva sui terreni, trasformando i contadini in braccianti agricoli a salario o sfrattandoli per sottoporli al pagamento di canoni d’affitto esorbitanti. Grazie ai loro eserciti, armati con le nuove armi da fuoco, sconfissero militarmente i comuni liberi e autogestiti. In Gran Bretagna, il processo culminò, alla vigilia della rivoluzione industriale, quando il parlamento impose le chiudende dei boschi, le paludi e i pascoli comuni; la stessa scena si ripeté su larga scala in Bengala con l’Insedio Permanente di Hastings. Entro la fine del diciannovesimo secolo le ricchezze minerarie dell’Africa e dell’Oceania erano state saccheggiate dalle società minerarie, e una grossa fetta delle terre coltivabili erano state prese da insediamenti europei.
Le grandi ricchezze capitaliste alla base della rivoluzione industriale inglese appartenevano all’oligarchia terriera whig che ereditò i frutti del furto e delle chiudende, oltre che ai profittatori mercantili associati che godevano di vari monopoli grazie alle concessioni governative. A lavorare nelle fattorie andarono i vecchi contadini, che le chiudende avevano trasformato a forza in proletariato senza terra.
E le forme istituzionali della rivoluzione industriale, ovvero la fabbrica e il lavoro salariato, nacquero in un ambiente repressivo da stato di polizia. In Gran Bretagna, le Laws of Settlement equivalevano ad un sistema di passaporti interni che proibiva ai lavoratori di andare da una parrocchia all’altra senza il permesso delle autorità istituite dalla Legge sui Poveri. Così chi viveva in una parrocchia sovraffollata non poteva “votare con i piedi” andando altrove a cercare migliori opportunità di lavoro. Anche se a prima vista potrebbe sembrare contrario alle necessità dei padroni delle fabbriche nelle aree scarsamente popolate del nord e dell’ovest, le autorità, dopo aver impedito alla popolazione di spostarsi e negoziare da sola le condizioni d’impiego per soddisfare le richieste, soddisfacevano le stesse richieste cedendo all’asta i poveri in eccedenza ai datori di lavoro. Aggiungiamo poi le Combination Laws e tutta una serie di leggi repressive contro le associazioni di solidarietà, che vietavano ai lavoratori di associarsi liberamente tra loro per aumentare il potere contrattuale. Così lo stato obbligava i lavoratori a lavorare per certi datori pena la disoccupazione, senza la possibilità di contrattare un salario più alto, anzi fungendo da agente contrattuale per conto dei datori di lavoro.
Secondo, la coercizione non è solo roba del passato, degli albori del capitalismo o della rivoluzione industriale. In realtà, le fortune acquisite con quel primo atto di ruberia continuano a crescere in tutta l’epoca capitalista grazie alla “magia dell’interesse composito”, risultato delle rendite monopolistiche, degli interessi e dei profitti possibili solo grazie alla scarsità artificiale e ai diritti di proprietà artificiali imposti dallo stato.
Il diritto di proprietà naturale è il diritto a possedere ciò che si ha e ciò che si produce con il lavoro; riflette la scarsità naturale; il suo rispetto ha origine diretta nell’atto stesso di possedere fisicamente qualcosa (occupare fisicamente e sfruttare un pezzo di terra, tenere in custodia ciò che si è prodotto, eccetera). Il diritto di proprietà artificiale, invece, dà la possibilità a chi ne gode di tenere per sé una parte del frutto del lavoro altrui, creando così scarsità artificiale laddove non esisterebbe in natura. Le classi privilegiate possono, per dirla con Henry George Jr, impedire l’accesso alle risorse naturali, oppure esigere un pagamento per l’uso di cose che per natura sono gratis e abbondanti. L’esempio classico è il possidente terriero che chiude una terra inutilizzata ed esige un tributo in cambio del diritto di coltivarla o di costruirci sopra.
Senza la scarsità artificiale della terra e del credito, senza le barriere imposte all’ingresso nel mercato, gran parte dei profitti sarebbero a breve termine, dovuti al “vantaggio degli iniziatori”, di chi crea un’innovazione o offre per primo una risorsa laddove c’è richiesta. Questi profitti verrebbero rapidamente distrutti man mano che altri adottano le stesse innovazioni o seguono il segnale di prezzo. I profitti si liquiderebbero da sé.
Altro grosso esempio è la “proprietà intellettuale”, che in sostanza vincola l’uso del proprio lavoro per trasformare risorse proprie perché qualcuno “possiede” lo schema necessario all’organizzazione di quelle risorse. A questo si aggiungono tutte quelle leggi che restringono l’offerta di moneta e di credito a poche classi privilegiate, rendendo entrambi artificialmente scarsi e cari.
In questa categoria rientrano anche tutte le barriere all’ingresso e le limitazioni della libera concorrenza: i piani regolatori che proteggono le imprese consolidate dalla concorrenza delle micro imprese a conduzione famigliare; le normative che per avviare una produzione impongono requisiti finanziari in aggiunta a quelli tecnicamente necessari; le licenze che riducono il numero degli attori in concorrenza sul mercato, o un mercato limitato a chi può pagare il prezzo altissimo della licenza; le normative che hanno come obiettivo principale l’aumento artificiale dei costi d’ingresso nel mercato, così che solo chi può pagare di più può entrare; le norme di “sicurezza” scritte dalle stesse industrie sottoposte a normative, il cui interesse primario è evitare l’adozione di nuove tecnologie produttive più economiche (esempio notevole sono le norme edilizie scritte dai costruttori che vietano tecniche tradizionali e nuove tecnologie a basso costo per lavori in economia, innalzando così i costi minimi ben oltre il necessario).
Più in generale la categoria si allarga a tutte le forme di guard labor (militari, polizia, guardie carcerarie ecc.), l’obsolescenza programmata e i sussidi al trattamento dei rifiuti, e tutte le restrizioni alla concorrenza che favoriscono le grosse e inefficienti aziende burocratizzate con grossi fatturati che, come dice Ivan Illich, incrementano i costi di ogni cosa del 300-400%. E questo 300-400% va interamente ad una classe di parassiti che vive di rendita. E poi i “monopoli radicali”, altro termine geniale di Ivan Illich, che rendono le persone dipendenti dalla produzione di qualche industria (esempio classico è la costruzione di autostrade e le normative che impongono la città diffusa e lo sviluppo della monocultura, che rendono impossibile l’accesso ai luoghi di lavoro e dello shopping a piedi, in bicicletta o con piccole utilitarie, trasformando così l’automobile in una necessità).
In ogni caso, il principio è ciò che Thorstein Veblen chiama “servizio nel disservizio”: esigere tributi in cambio del “servizio” di non intralciare la produzione.
Inutile dire che nessuna di queste cose, che contribuiscono a prendere ricchezza dalla popolazione che produce per concentrarla nelle mani di pochi possidenti, sarebbe possibile in una società basata sull’associazione spontanea e il libero scambio.
Al di là di tutto ciò, ci sono nuove tecnologie produttive che rendono sempre più insignificante la distinzione tra lo stare “in affari” e “fuori dagli affari”, o tra l’essere “occupati” e “disoccupati”, e tutta l’idea del lavoro salariato capitalista che emerge da un processo in cui ci sono vincenti e perdenti sta diventando obsoleta.
La selezione in sé non è un male. Va bene quella competizione che porta le persone a passare ad una condizione relativamente migliore, a patto che: 1) non ci siano distacchi bruschi; 2) ci sia un periodo cuscinetto durante il cambio; e 3) non ci sia una classe di eterni perdenti.
Non servono eterni perdenti. Prima di tutto, le spese fisse sono così basse che è possibile sopportare un periodo di crisi prolungata. Secondo, nel caso di produzioni flessibili a basso costo, in cui l’apparato produttivo è alla portata di molti e può essere facilmente convertito ad altri usi, non è difficile stare inattivi. Meno capitali servono per entrare nel mercato, e meno sono le spese da sostenere in tempi di magra, e più il mercato del lavoro tende a formare una rete in cui ognuno contribuisce ad un progetto comune, come nel caso della produzione paritaria di software. Nell’industria del software libero, come in qualunque altra industria in cui il produttore medio possiede tutti gli strumenti e la produzione ruota principalmente attorno a progetti autogestiti, la situazione sarebbe probabilmente caratterizzata non tanto dal successo o l’insuccesso di questa o quella azienda, quanto da un equilibrio perennemente instabile di progetti, unioni e divisioni, con operatori liberi che passano continuamente da un ambito all’altro. A ciò si aggiunge il fatto che, in una società in cui gran parte delle persone ha un tetto sopra la testa e può far fronte a gran parte delle necessità producendo a casa e condividendo o scambiando con il proprio prossimo, quei lavoratori che possiedono gli strumenti del mestiere possono permettersi di affrontare periodi di stanca e di scegliere accuratamente i progetti che meglio si adattano alle loro preferenze.