[Di Kevin Carson. Originale pubblicato da Center for a Stateless Society il 16 luglio 2016 con il titolo “Rule of Law,” “Bad Apples” and Other Myths. Traduzione di Enrico Sanna.]
La nostra cultura politica usa tanti tropi per oscurare la vera natura di ciò che accade in casi come quello di Baton Rouge, e prima ancora in una lunga serie di casi che risalgono a Ferguson, il pestaggio di Rodney King, giù fino alle nebbie del passato. Tutti oscurano il carattere strutturale della brutalità poliziesca. Due casi tra i più importanti: trattare l’atteggiamento violento della polizia come una sorta di deviazione dalla normalità, e considerarlo una questione di “mele marce”.
La parola “legge” non significa nulla. Basta vedere quello che è successo a Chris Le Day, l’uomo che ha registrato e diffuso il video dell’assassinio di Alton Sterling a Baton Rouge. Prima è stato messo dentro perché (sostenevano) “somigliava al sospettato” di un fatto di aggressione e percosse. Quando la scusa ha ceduto, hanno cercato fino a scoprire delle multe non pagate e le hanno usate come scusa per tenerlo dentro. Pare che non importasse l’infrazione alla legge, il vero obiettivo era una meschina vendetta per aver ripreso in video uno sbirro che uccideva.
Gli sbirri piegano e contorcono “la legge” come gli pare pur di ottenere i risultati che cercano. Pigliano qualunque pretesto (uno stop guasto, multe non pagate, “tentativo di fuga”) per infastidire, arrestare o giustiziare chiunque non gli vada a genio. Si dice spesso che le carceri sono scuole di crimine. Idem per la cultura poliziesca. Inventare finti “indizi”, seminare prove, ottenere un mandato dietro spergiuro, ricattare testimoni ricorrendo ad informatori… quando si tratta di aggirare il (presunto) diritto ad un dovuto processo o le restrizioni poste alle perquisizioni e ai sequestri, gli sbirri diventano geniali.
Se la criminalità della polizia fosse una qualche aberrazione che il sistema può aggiustare per tornare alla “normalità”, perché questa autocorrezione non c’è stata in questi due anni, da Ferguson e l’inizio del movimento Black Lives Matter? Abbiamo invece visto neri disarmati uccisi dalla polizia, e poi manifestazioni di massa… seguite a loro volta da poliziotti in rivolta con lacrimogeni e idranti. Lungi dal correggersi, il sistema può solo rafforzare questo comportamento.
E se Ferguson o Baton Rouge fossero dei casi di “mele marce”, ci aspetteremmo di vedere indagati, condannati e rimossi dal sistema gli agenti responsabili. Invece abbiamo visto come il sistema si unisce in loro difesa. Chi manifestava contro la brutalità della polizia è stato affrontato, nelle stesse città in cui sono avvenuti i fatti criminali della polizia, con tutta la forza repressiva dello stato.
Può darsi che la maggioranza, o almeno una pluralità, di agenti sia composta da “mele buone”, nel senso che hanno scrupoli morali riguardo gli abusi e si astengono dal ricorrervi se non quando assolutamente richiesto dal loro compito. Ma non potrebbero sopravvivere nel sistema senza rispettare anche il codice blu (dal colore della divisa, es) d’onore e senza voltare la faccia dall’altra parte quando le “mele marce” abusano del potere. I pochi poliziotti che si fanno avanti testimoniando contro la corruzione subiscono la stessa sorte di tutti gli altri informatori: perseguitati dai loro superiori finché finalmente non lasciano perdere, la loro carriera rovinata per essere andati contro il codice d’onore.
Il problema non è che il sistema dovrebbe tornare (tornare!) a qualche genere di normalità basato sullo “stato di diritto”, o che occorrerebbe trattare più duramente le “mele marce”. Il problema è la natura del sistema stesso: il ruolo strutturale della polizia, come parte di uno stato capitalista, nell’applicare un sistema fatto di regole di classe e di supremazia bianca. Finché non estirperemo alla radice questo sistema di potere, per citare una metafora di Thoreau, tagliare i rami sarà inutile.