[Di Enrico Sanna. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 3 luglio 2016 con il titolo The Short Happy Life of Free Broadcasting in Italy. Traduzione di Enrico Sanna.]
Una convinzione comune a molti, compresi molti che si presentano come libertari, è che viviamo in un mondo di libero mercato. Che il mercato sia libero e dominato da attori dediti allo scambio libero sembra un dato di fatto. Ogni “fallimento del mercato” è solitamente visto come un difetto del mercato, e deve essere corretto dall’azione dello stato.
Solo che non è così.
Il mercato non è affatto libero. È manipolato. E a manipolarlo è l’alleanza tra stato e grandi aziende. È così fin dall’inizio della cosiddetta rivoluzione industriale, circa due secoli fa. Se si vuole capire quanto sono stretti i legami tra potere statale e potere corporativo basta guardare alle reazioni dei mercati azionari subito dopo la recente Brexit. Questo sistema condominiale che unisce stato e grandi aziende è oggi la norma in tutto il mondo. Quel poco che rimane del libero mercato, ovvero il mercato nero, viene condannato da tutti, compresi molti libertari.
Furono le azioni del mercato nero (inizialmente illegali, poi tollerate) che diedero origine alla liberalizzazione dell’emittenza in Italia negli anni settanta. Nel giro di pochi anni, letteralmente centinaia, se non migliaia, di stazioni radio spuntarono in tutta Italia. Improvvisamente tutti erano liberi di trasmettere dietro una semplice autorizzazione, facilmente ottenibile dallo stato. Moltissime “radio libere”, come furono chiamate immediatamente, erano piccolissime, trasmettevano in un territorio ristretto a pochi comuni, e si basavano sul volontariato. Molte avevano sede in appartamenti vacanti, garage e soffitte polverose. I finanziamenti venivano da donazioni volontarie e, di norma, dalla pubblicità locale.
In un certo senso, erano libere. Ma quella libertà non durò a lungo. Dopo ci torno.
L’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi edificò il suo impero mediatico con l’aiuto dello stato. Berlusconi è l’esempio tipico di imprenditore il cui successo dipende fortemente dal sistema di mutuo aiuto e mutuo vantaggio che lega stato e grandi aziende, ovvero il fascismo. Bettino Craxi, socialista, presidente del consiglio negli anni ottanta, aiutò Berlusconi a mettere su la Fininvest, la più grande azienda mediatica “privata” in Italia. Il fatto lo rese la persona più odiata/amata in Italia.
Come per dimostrare quanto affari e potere politico siano profondamente intrecciati, Berlusconi si candidò alle elezioni politiche del 1994 e vinse. Assente Craxi, il partito socialista a pezzi, si candidò per tenere il suo impero vivo e al sicuro.
Intanto le stazioni radiofoniche furono decimate dalla cosiddetta Legge Mammì (dal nome del primo firmatario, Oscar Mammì). L’articolo uno della legge stabilisce che tutte le emittenti devono intendersi di primario interesse generale. Questo significava la messa in onda di notiziari e altre cose che i politici ritenevano di pubblico interesse. Inutile dire che ciò richiedeva una redazione. Le leggi italiane stabiliscono che ogni redazione debba avere a capo un iscritto all’ordine dei giornalisti, creato da Mussolini nel 1925 per controllare il mondo dell’informazione. Un giornalista costa, anche se serve solo a firmare qualche pezzo di carta una volta ogni tanto. La maggior parte delle emittenti, basate sul volontariato e la pubblicità locale, e con strutture ridotte all’osso, non sopravvisse.
(Rivelazione: a quei tempi io era membro dell’ordine dei giornalisti. Venni fuori nel 1996 quando mi resi conto che l’ordine era un inutile imbroglio).
Questa semplice legge uccise centinaia di stazioni radiofoniche. Non a caso, oggi l’emittenza è nelle mani di pochissime, grosse emittenti sostenute da grandi capitali e con bacini di utenza a livello nazionale o regionale. Le piccole radio di provincia sono quasi scomparse. Nella mia cittadina (di circa 10.000 abitanti) il numero passò da quattro a zero.
Senza lo stato, molte di queste emittenti sarebbero morte ugualmente? Forse. Ma a fare la cernita sarebbe stato il mercato, l’audience, i clienti. Non lo stato. Le piccole radio avrebbero unito le proprie forze. Pensate all’emittenza in cooperativa.
In un mercato veramente libero chiunque può iniziare un’attività, per profitto o per divertimento, basata sul volontariato, le donazioni o quel che si vuole. Ognuno è libero di diffondere musica, notizie, poesie, eccetera, finché ne ha voglia. Non tocca allo stato dichiarare vincitori e perdenti.