[Di Sheldon Richman. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 29 giugno 2016 con il titolo Brexit: Which Kind of Dependence Now? Traduzione di Enrico Sanna.]
Brexit rappresenta un passo verso l’indipendenza della Gran Bretagna? Alcuni sostenitori dell’uscita e della permanenza potrebbero trovarsi d’accordo su di ciò, salvo poi discordare sul fatto che sia un bene o un male.
Come sempre, però, la realtà è più complessa. È auspicabile che, per certi versi, l’uscita dalla UE crei una sorta di dipendenza che non esisteva mentre faceva parte dell’Unione.
Per capire come, è bene citare il caso del liberalismo (classico) che contempla l’esistenza di giurisdizioni politiche in competizione tra loro come qualcosa di opposto ad un’unica autorità: la concorrenza tende a generare libertà e prosperità abbassando i costi della “uscita” (votare con i piedi e passare da una giurisdizione più onerosa ad una meno onerosa).
Studiosi della politica e del diritto hanno da tempo capito che il decentramento del potere in Europa è in larga misura alla base delle conquiste in fatto di autonomia e prosperità individuale. Nel Medioevo, invece di un unico superstato con una singola autorità religiosa, l’Europa aveva numerose piccole giurisdizioni e una chiesa transnazionale, e ognuna di queste due parti era gelosa delle proprie prerogative. Quando il re d’Inghilterra provava a consolidare il proprio potere, trovava subito l’opposizione dei baroni e di chi aveva tutto da perdere dall’accentramento del potere.
Anche se liberare la gente comune non era tra gli intenti degli attori di questo dramma, in grande misura questa fu la conseguenza di questa lotta, conseguenza che cambiò il mondo con l’aiuto, quando arrivò l’occasione, della lotta, popolare e diretta, all’oppressione. Dopo il Medioevo questa tradizione proto-liberale, sebbene sotto attacco, fu invocata in difesa della libertà e del progresso economico. Il risultato, per quanto imperfetto e a continuo rischio da parte di chi privilegiava il potere sulla libertà, è ciò che chiamiamo lo spirito liberale occidentale.
Ripeto: l’elemento chiave fu il decentramento. Senza questo la rivoluzione liberale non avrebbe avuto luogo.
E qui nascono complicazioni: se decentramento significa indipendenza legale e politica, allora può anche generare dipendenza (o meglio interdipendenza) economica e sociale. Se votare con i piedi costa poco, le varie giurisdizioni devono competere tra loro per attirare e trattenere capitali e persone; il fallimento di ciò, ovvero l’autarchia, porta alla stagnazione economica e sociale.
Dunque la questione non è: dipendenza o indipendenza? Ma: che genere di dipendenza? La dipendenza politica che deriva dal far parte di un’unione di stati? O la dipendenza economica e sociale generata dalla competizione tra stati politicamente indipendenti?
La UE è essenzialmente un cartello che mira a sopprimere la competizione tra gli stati europei. Questo non significa che non abbia obiettivi o effetti liberalizzanti, come la libertà di spostarsi e lavorare senza visti o il freno agli aiuti pubblici alle aziende (l’ho detto che è complesso). Ma la competizione è troppo importante per essere soppressa perché rivela informazioni critiche che probabilmente non si possono acquisire altrimenti. Poiché le conoscenze di importanza vitale sono disperse tra un gran numero di persone, la competizione è, come dice il premio Nobel per l’economia F. A. Hayek, un “processo di scoperta” unico. Non è una questione di libertà ma di progresso, di vita o di morte per chi vive in un mondo in evoluzione.
L’armonizzazione burocratica normativa e fiscale della UE, nonostante le possibili intenzioni liberali, fa sì che i singoli stati non competano tra loro liberalizzando per attirare uomini e capitali. Nessuna competizione significa necessariamente nessuna scoperta, e nessuna libertà. Ciò fornisce grosse opportunità di rendita alle grandi aziende, di cui la UE pullula.
L’ex filosofo della politica, il britannico Norman Barry, nel 1999 mise in guardia dai pericoli insiti nell’ingresso nella UE. “Quello che i sostenitori entusiasti della [unificazione politica della] Europa non capiscono,” scrisse, “è che la libertà è protetta più dalla competizione, economica e legislativa, che dalle carte costituzionali: ‘uscita’ batte sempre ‘voce’ (i privilegi democratici).” Ovviamente, la possibilità di uscire da un paese richiede la possibilità di entrare in un altro: le restrizioni all’immigrazione sono profondamente illiberali.
Poi Barry continua: “Non è detto che gli euroscettici britannici siano necessariamente fanatici della sovranità parlamentare [anche se Nigel Farage e il suo UK Indipendence Party sembrano tali], lo stesso sistema che ha fatto così tanto per minare l’economia di mercato e la supremazia della legge nel loro paese. Ciò che temono più di ogni altra cosa è la riproduzione di quel fenomeno istituzionale su scala molto più grande e pericolosa in Europa.”
Infine: “L’unico vantaggio nel mantenere gli stati indipendenti (che potrebbero sempre vincolarsi con regole generali minime, soprattutto per la promozione del libero commercio e la protezione del diritto alla libertà di movimento) sta nella possibilità di preservare una genuina competizione istituzionale.”
La Brexit non avrà alcuna conseguenza automatica oltre l’uscita formale. Importanti ora sono le scelte politiche dei britannici (ed europei, americani, ecc.). Se i britannici cedono alla xenofobia o al protezionismo, ne soffriranno. Ma se dovessero seguire il programma basato su pace e libertà di commercio dei grandi Richard Cobden e John Bright, che nel 19º secolo si opponevano ad un ruolo internazionale della Gran Bretagna, allora avranno prosperità e libertà.