Di William Gillis. Originale pubblicato il 29 novembre 2019 con il titolo Twenty Years Beyond Seattle. Traduzione di Enrico Sanna.
“Gasano anche i bambini!”
Un piccolo gruppo di affinità formato da ragazzini mi superò di corsa, tutti black bloc, uno rallentò e mi guardò. Io mi ero levato la bandana rossa inzuppata di lacrimogeno e spray al peperoncino. Restava un tredicenne, magrolino, con la giacca a vento gialla che mia madre mi aveva costretto a portare.
Sorridevo dentro di me perché non ero affatto un innocentino. Era tutto il giorno che disprezzavo gli altri manifestanti, deridevo i discorsi dei liberal coi loro cartelli insulsi, volgevo gli occhi al cielo quando vedevo come erano infantili gli altri che lottavano. N30 era la mia prima grande protesta e io volevo più di ogni altra cosa starne al di sopra. Ero arrivato a Seattle più per osservare la fine del mondo che per parteciparvi. Non credevo che avremmo vinto questa sorta di battaglia finale contro un’orda di istituzioni neoliberali zuppe di imperialismo, sempre più distanti dai pesi e i contrappesi della democrazia. Pensavo che avremmo perso.
In verità, penso che abbiamo perso la battaglia. Per dirla sinceramente, non furono le proteste di strada a far fallire il WTO. Gli accordi del Doha round si fermarono qualche anno dopo grazie ad un combinato fatto di nazionalismo risorgente causato dal cambio di strategie di George W. Bush dopo l’undici settembre e l’attività coalizzata dei governi del sud del mondo con potere di leva. Non c’è alcun nesso causale tra questi sviluppi successivi e le proteste di strada organizzate da noi. Quel che nessuno dice quando si ricorda La Battaglia di Seattle, è che quel fine settimana regnava un senso di sconfitta. “Si incontrano! Hanno sfondato le linea rossa! Un politico ha puntato una pistola contro un mio amico! Una pistola!”
La vittoria principale di Seattle fu una vittoria mediatica. Gli anarchici divennero improvvisamente visibili in tutto il mondo, posizioni politiche fino ad allora tenute fuori dallo spazio pubblico divennero immediatamente visibili e accessibili. Moltissimi anarchici di mia conoscenza raccontano che leggendo le notizie su N30 vedevano il mondo aprirsi, per la prima volta si vedeva qualcosa degli anarchici, finalmente si capiva che quella anarchica era una posizione possibile, che la resistenza era fattibile. Il potere istituzionale, spaventato e confuso, gettava benzina sul fuoco, come si capisce da questo scambio di battute alla radio trascritte da Richard Day in Gramsci Is Dead:
Inviato: “Ci sono persone qui che gironzolano… no, gironzolano non è la parola giusta, sembrano organizzati. Non so chi sono, sono tutti vestiti di nero, hanno dei cappucci neri e bandiere nere… bandiere senza simboli.”
Studio: “Una bandiera senza simboli?”
Inviato: “Esatto, completamente nera.”
Dicono che il movimento anarchico è incapace di capitalizzare il successo. Siamo così abituati alla sconfitta perdiamo l’orientamento, siamo attoniti quando qualcosa va per il verso giusto. Ma quella volta dopo Seattle ci siamo accorti che l’indignazione dei media per le vetrine rotte degli Starbucks era una manna e l’abbiamo sfruttata fino in fondo. Quelle immagini, i miti, le storie raccontate e riprodotte in tutto il mondo hanno creato decine se non centinaia di migliaia di anarchici. Il termine black bloc entrò nel linguaggio pubblico, si formò una massiccia infrastruttura attivistica in tutto il mondo. In quasi tutte le città c’erano infoshop e indymedia che davano un senso di unità, di un’affinità immediata, profonda, tra persone anche solo vagamente antiautoritarie e di sinistra.
A rafforzare il senso della comunità fu anche l’irraggiungibilità delle istituzioni. Finché l’anarchismo era il faro guida, il baricentro, la sostanza del conflitto era semplice. Da una parte chi stava al potere e dall’altra tutti gli altri. C’è stato un tentativo della base di fare revisionismo storico chiamando questo movimento, questo momento, “contro-globalizzazione”. Ma il termine allora di gran lunga più usato era “anti-globalizzzazione”. Questo tentativo di creare coalizioni eco-sindacaliste ha prodotto spazzatura. Abbondavano nazionalisti, opportunisti e semplici svitati. Se gli spazi specificamente anarchici e quelli con una forte unità interna evitarono parte del peggio fu perché il ventennio seguente vide una lenta e faticosa ripulitura dal marciume avanzato. Complottardi antisemiti, misogini britannici, nazionalisti e marci vari. I più giovani si chiedono perché abbiamo tollerato certi comportamenti o considerato certe posizioni tollerabili. La risposta è che a molti di noi piaceva quella merda, la parola d’ordine era: unità e numero. Eravamo impressionati dai numeri di spettacoli come Seattle, concetti come Il Popolo che alza la testa ci eccitavano. Erano le moltitudini contro i pochi in alto.
Dieci anni dopo, fu Occupy a distribuire altre dosi di questo potente elisir. La coalizione era leggermente diversa. Un’infornata di pivellini e di veri e propri mostri che ci sono voluti anni a ripulire la piazza. Un’ondata di reclutamenti, stavolta senza un’ampia base perché in molte città Occupy sorse in relazione parzialmente antagonistica con le altre organizzazioni attiviste/anarchiche dell’era anti-global. Nascevano nuovi gruppetti, ognuno con la sensazione di una crescita dirompente. Un anno dopo sentivi persone che si vantavano di militare “fin dai tempi di Occupy”.
La massa è inebriante. Non c’è scampo. L’evoluzione non ha dato ai nostri cervelletti la possibilità di valutare bene i pericoli sociali di chi diffonde il male sui social o la forza rappresentata da seimila persone che avanzano come un mare che si perde all’orizzonte. Noi siamo tanti e loro pochi. Vedere migliaia di persone che sfilano accanto a te e qualche centinaio di sbirri a protezione di altrettanti politici e affaristi è uno sballo. Io la definisco l’“intossicazione dell’inevitabile”; è la certezza di stare dalla parte vincente.
Ma la verità è che siamo pochi. I valori anarchici non sono popolari. Siamo un gruppetto di estremisti che va alla radice delle cose con coerenza. È facile spacciare un’immagine confusa dell’anarchismo con battute ad effetto, ma quando si va al cuore molti si ingrippano. “Ognuno è anarchico di per sé perché non ha bisogno del poliziotto per ordinare una pizza!” Anarchismo in realtà significa una filosofia fatta di infinita responsabilità personale, perché non è facile accettare la libertà d’agire, significa riflettere sul da fare piuttosto che accettare il predigerito. E sembrerà strano ma solitamente noi siamo i perdenti. Ci gettiamo tra gli ingranaggi della macchina perché è la cosa giusta da fare, non perché abbiamo la vittoria garantita. Non siamo la squadra più forte. Siamo la più piccola. E la più esigente.
I nostri successi, quando arrivano, non sembrano tanto grandi. Spesso i successi migliori, l’impatto più grande l’abbiamo quando operiamo ai margini, quando colpiamo in anonimo isolamento, quando facciamo cose che non sono sexy e che diventano così normali e invisibili che non meritano neanche un documentario.
Come dimostrazione di forza, Seattle fu un fallimento. Non abbiamo assaltato il palazzo e esposto la testa di Bill Clinton su una lancia, non abbiamo neanche impedito l’incontro. In senso mediatico, in termini di risonanza, è stato il maggior successo degli anarchici dai tempi della Rivoluzione Spagnola. Ha bucato gli schermi dei media inebetiti, ha detto a tutti in tutto il mondo che non erano gli unici a voler reagire. Fu in parte un successo della forza apparente, e il prezzo poteva essere molto alto.
Ma la forza dimostrata in quel nuvoloso novembre 1999 non era solo nei numeri, non era solo lo stordimento causato dalla presenza massiccia e dall’inevitabilità del fatto.
Arrivai a Seattle che ero già insensibile, amareggiato, disilluso. Le sfilate oceaniche non mi hanno mai entusiasmato. Le parole, gli assedi falliti in partenza non mi hanno mai ravvivato. La repressione non mi sorprese. Fu quella notte, dispersi i black bloc, il centro buio e blindato, quando i poliziotti cominciarono ad attaccare tutti i gruppetti che capitavano loro, fu allora che ebbi un barlume di speranza.
“Non potete passare da qui. Hanno chiuso il ponte.” “Impossibile, dicono tutti che questa è una delle poche uscite… Continuano a dire andate via ma ci hanno rinchiuso, non c’è modo di uscire dal centro.” “Le occorre aiuto?” “Le hanno spruzzato lo spray al peperoncino dritto nei polmoni ma sta bene, adesso può camminare, ci serve solo…” “Merda, arrivano!!”
La città era una zona di guerra. Avevamo perso, gli assedi erano falliti, i politici si erano riuniti comunque. Il nostro ultimo disperato attacco contro uno scatenato capitale era andato a vuoto. Il futuro si annunciava piuttosto triste. I fantocci della polizia di stato agli ordini delle multinazionali, norme assurde sulla proprietà intellettuale, le frontiere che servivano a mantenere i recinti schiavistici e le miniere fangose del sud del mondo mentre i capitali dei super ricchi andavano dove volevano. Il più pessimista tra i film cyberpunk era una commediola paragonata all’inferno che avevamo davanti.
Ai tempi di Seattle ero già “anarchico” da anni. Ma era un “anarchismo” egoista, quasi neanche meritava quel nome. Una sorta di disprezzo verso le strutture di potere che mi stavano attorno. “Anche questo passerà” mi dicevo fiduciosamente. Tutti i palazzi dei tiranni sono destinati a crollare. Le civiltà che non capiscono ciò sono destinate a durare poco. Lottare per il potere è da fessi perché il potere cade sempre. Dominare è impossibile in un mondo dalla complessità frattale.
Mentre correvo per le strade fredde di Seattle, con l’aria nebbiosa impregnata di lacrimogeno, mi resi conto di una cosa. Che il potere poteva vincere. E magari vincere tutto. Poteva durare in eterno, o abbastanza da spazzare via le ultime briciole di libertà.
Ero arrivato a Seattle convinto che avremmo perso. Ero cinico. Ma era un cinismo da privilegiato, ingenuo, di comodo. Era una rinuncia frettolosa, non una valutazione rigorosa. E se le cose erano peggio di come pensassi? E se era impossibile riportare l’ordine senza usare il potere? E se davvero il potere poteva vincere tutto, per sempre, in eterno?
Se la morte, se il fascismo, se l’illibertà poteva vincere tutto allora la posta in gioco era molto più alta di quanto avessi mai immaginato.
Alcuni sparuti black bloc mi passarono accanto. Mi guardarono come se fossi un altro innocente, un’altra vittima dell’ingiustizia dei poliziotti. Uno che sicuramente di lì a qualche giorno sarebbe stato riportato a casa. I ragazzini sono così inetti. Io speravo di non diventare mai così ingenuo. Così maledettamente, vergognosamente onesto.
Una nebbia d’inchiostro scendeva su tutta la città. I lampioni solitari creavano piccole isole di chiarore. Ripensavo ai capannelli di persone per le vie abbandonate, che si scambiavano informazioni su quali strade erano chiuse, come fare per uscire, dove era che la polizia stava dando lo spettacolo.
Non ci avevano presi tutti, tutt’altro.
E quando non seguivano come automi il manuale della protesta, o il manuale del giovane black bloc, le persone erano… persone. Una presenza viva dietro gli occhi, attiva, complessa, in movimento. Riuscivano a sorprendere. Un impiegato solitario alla fermata dell’autobus che improvvisamente si fionda in mezzo alla strada e con un calcio rimanda un lacrimogeno ai poliziotti. Un liberal che conosce a menadito le tattiche della polizia. Un ragazzino tutto ossa in giacca a vento gialla che in realtà è un anarchico navigato dalle mani non proprio innocenti.
Basta una zona di guerra, anche solo un giorno di spettacolo, per ricordare che la morte non ha vinto. Che esiste una distanza infinita tra una vittoria quasi certa e una vittoria.
Il fatalismo è irrazionale. Perché anche nelle condizioni più avverse ci si aggrappa anche alle possibilità più remote. La speranza è, in un certo modo, la prospettiva più razionale, la più sana e la meno timorosa tra quelle a nostra disposizione. Guardare il mondo e non tirarsi indietro davanti all’impresa.
Girai per il centro, fermandomi per un attimo su una collinetta sovrastante la nebbia. Ripensai a quelli che avevano condiviso la strada con noi. Empatia significa che non lotti solo per te stesso, non si può essere neutrali, non ci si può nascondere, sei in guerra con tutto il mondo, in tutto il mondo. Tutto è in gioco. Libertà o morte. Essere cosciente delle proprie azioni significa non scappare davanti alle conseguenze, significa prenderne atto.
A Seattle abbiamo perso. Abbiamo perso a Praga. Abbiamo perso a Washington. A Genova. A Miami. A Cancun. A Toronto. E ad Amburgo. Abbiamo sempre perso. A volte in maniera curiosa, originale. A volte abbiamo perso un po’ di più e a volte un po’ di meno.
E però non abbiamo perso. Siamo ancora qua. E abbiamo davanti sfide nuove e insolite. Che porteranno ferite impreviste e vittorie ignorate.
L’ombra di N30 è lunga. Molti di noi e molte delle nostre lotte attuali sono un risultato di quella giornata a Seattle. È mutata e si è moltiplicata la sua dimensione mitologica, che fu il debutto internazionale dei black bloc dopo anni di atti relativamente ignorati. Ma la nostra forza non corrisponde al mito o all’immagine. La nostra forza più grande sta sotto le immagini grandiose. Il singolo atto di resistenza, i momenti di solidarietà, i lampi di genio. Queste cose non sono scomparse nella pancia di qualche bestia, che sia neoliberale o nazionalista. Ogni volta che adottiamo l’azione, ogni volta che sentiamo il dovere di agire nonostante le scarse possibilità di riuscire, ogni volta ci rendiamo un po’ più indigesti.