Di William Gillis. Originale pubblicato il 23 maggio 2018 con il titolo The Status Quo Bias of Libertarians. Traduzione di Enrico Sanna.
Per definizione, nessun libertario antistatalista crede nella legittimità della proprietà statale. La proprietà di stato è inammissibile per sua stessa natura. Le sue rivendicazioni di proprietà sono rivendicazioni di un pazzo sanguinario armato fino ai denti.
Essendo l’aggressione l’essenza dello stato, molti giustificano le azioni contro lo stato come atti di difesa. Qualcuno, stirando il concetto, dice che sterminare un comando di polizia sarebbe non solo giustificato ma eroico. Ma per quanto un poliziotto possa apparire ripugnante, e magari anche irrecuperabile, in qualche senso, anche remoto, si tratta di un’entità agente. Uccidere una persona, un individuo, è senza dubbio un atto violento, per quanto si cerchi di giustificare l’atto. (Nota: in questo articolo uso il termine “giustificato” in un ampio senso morale, evitando discussioni contestuali su strategie, relazioni pubbliche e altro. Dire che qualcosa è giustificato non significa necessariamente che deve essere fatto.).
Più difficile è capire se distruggere una proprietà statale costituisce violenza. Qualunque anarchico consapevole concorda con il fatto che rompere una finestra di un comando di polizia, danneggiare un muro di confine e gettare sangue finto sulle cartoline precetto è generalmente giustificato o moralmente permesso. Ma questo non spiega se si tratta di “violenza”. La violenza è spesso giustificata come difesa, e lo stato è per natura aggressore.
Molti anarco-pacifisti di mia conoscenza, tra cui quaccheri convinti e sostenitori della nonviolenza, non considerano violente queste azioni. Anzi, il fatto che la distruzione delle cartoline precetto e quella di una finestra siano atti filosoficamente indistinguibili è un esempio canonico di come il nostro concetto di violenza, istintivo e sociale, sia distorto e arbitrario. Molti di questi pacifisti spiegano come la proprietà fisica possa separarsi dalle persone e gli attori. Rompere una sedia a rotelle significa senz’altro fare violenza contro qualcuno, ma una persona con inclinazioni comuniste potrebbe apparire estremamente scettica davanti a dichiarazioni di continuità corporea o agente che vanno oltre il più immediato benessere fisico. Forse la tua sedia a rotelle è un’estensione del tuo corpo, direbbe, ma non la tua casa, l’auto, o la fabbrica. La linea di demarcazione dipende solitamente dall’ambiente: se per te possedere un’auto o una casa è un miraggio, allora l’idea che queste cose siano un’estensione di te o delle tue azioni è assurda. Su questa linea si giunge ad una sorta di immediatismo, che nella variante estrema considera “abbandono” qualunque distanza tra la persona e l’utilizzo attivo di qualcosa. Questa nozione ristretta di proprietà rende i comunisti fuori luogo in un mondo egalitario dell’abbondanza ma non ancora post-scarsità, un mondo in cui operare ad un livello più ampio dell’immediatezza non significa necessariamente rubare ai poveri.
Da persona che crede nello sviluppo tecnologico e nel potenziamento dell’uomo, difendo la nozione più ampia di proprietà. I progetti che portiamo avanti possono e devono estendersi a tutto il mondo, come rivoli di un’azione che fluisce per vie complesse oltre l’immediatezza del nostro corpo biologico, ed è importante che l’integrità sia preservata. In società, l’assegnazione delle proprietà è una questione complessa; una delle ragioni principali dietro la proprietà è il rispetto delle ramificazioni dell’autonomia delle singole entità corporee.
Per questo tanti libertari sostengono che la violazione della proprietà è violenza. Anche se con gradi diversi di gravità, rompere una finestra e rompere le ossa di qualcuno sono considerati atti appartenenti alla stessa categoria. E qualche ragione esiste. Rompere le stampelle di qualcuno equivale sicuramente ad un’aggressione fisica diretta. Distruggere, rubare o anche solo interferire con la vita di qualcuno, o con gli strumenti necessari per vivere, rappresenta una violenza pura e semplice. Se rompi le finestre di una casa abitata da gente povera, li esponi al freddo. Questa è senz’altro violenza.
Certo però la nozione di estensione corporea è molto più debole quando si tratta della finestra di un’attività aziendale. Non stiamo neanche a chiederci se gli azionisti collettivamente “possiedano” qualcosa; nel peggiore dei casi il danno è marginale e diffuso su un numero enorme di individui, un po’ come l’inquinamento. E però libertari di tutto lo spettro ritengono senza dubbi che rompere una finestra di un’attività aziendale costituisca violenza e questo perché si tratta della violazione del diritto di proprietà di qualcuno. E va bene.
Ma quando si astrae la definizione di violenza in termini di titoli di proprietà improvvisamente sorge la questione: quali titoli?
Gran parte dei libertari ritiene che rompere una finestra di un comando di polizia sia violenza. Una violenza generalmente giustificata, anche se qualcuno avrà da cavillare sulle strategie ideali di mobilizzazione e contrasto, ma comunque violenza.
Se ai libertari va riconosciuto il merito di sostenere che la resistenza fisica contro lo stato è giustificata, il fatto che giudichino “violente” azioni come rompere le finestre di un commissariato, distruggere una barriera di confine o gettare sangue finto su documenti di leva implica immediatamente l’accettazione delle rivendicazioni di proprietà da parte dello stato.
Esiste una infinità di rivendicazioni di proprietà invalide. Io posso rivendicare la proprietà del mondo intero, ma se calci un sasso mentre scali l’Everest è chiaro che non fai violenza. Chiunque può rivendicare quello che vuole in materia di assegnazione dei titoli di proprietà. Spesso, persone diverse hanno concetti diversi, legittimi ai loro occhi, dei titoli di proprietà.
Il fatto che molti facciano più o meno riferimento a certi registri dei titoli di proprietà, riconosciuti e protetti con le armi dallo stato, non significa che allo stato debba essere riconosciuto il diritto di stabilire cosa costituisce violenza (o legittima proprietà).
Anche quando violenza e proprietà sono considerati termini neutri, la cui rilevanza ai fini di una valutazione etica è fortemente contingente (come “uccidere” è neutro rispetto a “assassinare”), ci sono poche ragioni per affidare tali concetti o termini a qualcosa di così arbitrario e privo di contenuto come “qualunque cosa lo stato dica”.
L’ultimo rifugio è rappresentato dalle teorie oggettive del valore: rompere la finestra di un comando di polizia, danneggiare una barriera o imbrattare documenti col sangue diventa violenza perché distrugge il valore oggettivo degli oggetti in sé, anche se la loro proprietà è contesa. Ma il valore ovviamente non è oggettivo. Quella che per qualcuno è una “utile barriera” per qualcun altro è un “inutile ostacolo”. Il fatto che lo stato abbia gettato via milioni per mettere un mucchio di terra lungo la frontiera non rende quella terra più utile della stessa terra messa altrove. La finestra, la barriera, i documenti usati dallo stato non hanno più valore intrinsecamente, ma solo in relazione ad altre persone, e chiaramente sarebbero molto più utili – o avrebbero più valore – se fossero “distrutti” e non conservati. Certo per qualcuno sarebbe meglio, in un certo senso, smontare i vetri delle finestre di un posto di polizia approfittando della notte per poi regalarli, intatti, a chi ne voglia ricavare qualcosa di utile. Ma spaccarli direttamente è molto meno rischioso.
Ovviamente, essendo la proprietà statale illegittima e molto oltre le capacità sensoriali estese, la sua distruzione o “riorganizzazione” non può assolutamente essere considerata “violenza”.
Allora perché molti sedicenti libertari antistato definiscono tale distruzione, istintivamente e ripetutamente, come violenza, pur ammettendo che è giustificata?
Io credo che la questione metta in luce la pressione, enorme e sistematica, che la realtà contingente esercita sulla politica dei libertari. Soprattutto per quanto riguarda l’imposizione dei diritti di proprietà. I libertari potrebbero (giustamente) avere da obiettare dinanzi all’ossessione comunista dell’esproprio immediato, ma per quanto riguarda i diritti di proprietà di gran parte della ricchezza mondiale, diritti profondamente intrecciati con secoli di imperialismo sistematico e violento, con la schiavitù, i genocidi, le appropriazioni territoriali, il furto, eccetera, i libertari cercano disperatamente di evitare la conclusione secondo cui nessuno dei titoli di proprietà oggi riconosciuti poggia su basi legittime.
Molti anni fa mi capitò di trarre d’impaccio un anarcocapitalista sudafricano imbrogliato in una discussione sull’antifascismo in un bar di Berlino. Durante i giorni seguenti parlammo a lungo della teoria della proprietà e della miriade di meccanismi delle sovvenzioni di stato. Alla fine lo interrogai sulle origini della ricchezza della sua famiglia, che apparteneva alla borghesia medio-alta. Mesi dopo mi mandò un’email in cui riconosceva che la sua ricchezza era indubbiamente il risultato di una violenza di stato e che secondo le teorie di base anarco-capitaliste avrebbe dovuto renderla alle vittime dell’apartheid e del terrore di stato, o che comunque quelle vittime non avevano alcuna ragione sostanziale per rispettare il suo diritto di proprietà. Ma non disse che pertanto avrebbe dovuto cercare un più forte impegno e vincolo etico, o più semplicemente che avrebbe dovuto impiegare il suo privilegio e i suoi guadagni illeciti per aiutare veramente gli altri. No, disse che avrebbe fatto come i liberal. Avrebbe rinunciato esplicitamente a qualunque estremismo politico per accogliere una politica medio-borghese, avrebbe fatto pace con le crudeltà dello stato, avrebbe espiato le sue colpe residue affidandosi alle politiche sociali, pur sapendo benissimo che evitavano le soluzioni reali per mantenere invariato l’ordine delle cose.
Se, da un lato, ci sono estremisti libertari che a denti stretti ammettono di essere economicamente privilegiati (così come ci sono libertari poveri che riconoscono il valore dei mercati e della collaborazione economica consensuale pur essendo personalmente vittime dell’oppressione sistemica del nostro presunto “libero mercato”), dall’altro permane, nel libertarismo in quanto movimento, un’irresistibile tendenza verso i valori sedentari delle classi medio-alte. Le conclusioni finali di una qualunque coerente teoria libertaria sono profondamente radicali, ma in quanto movimento il libertarismo tende aprioristicamente ad adagiarsi sulla contingenza; al massimo, i libertari possono essere trascinati, urlanti e recalcitranti, ad accettare qualche deviazione radicale. C’è una ragione se l’immagine pubblica del libertarismo ricorda quella dei “repubblicani che a denti stretti ammettono la legalizzazione dell’erba”. I libertari fanno tesoro delle loro varie iconoclastie, ma da un punto di vista prettamente anarchico queste iconoclastie sono poche e ammesse con riluttanza. Per questo tendono sistematicamente verso lo status quo.
Quando questa tendenza, a prescindere dalle basi ideologiche ostentate, acquisisce diventa endemica e parte del carattere di un dato movimento, è anche sulla base di ciò che il movimento fa proselitismo. Nonostante le denunce di noti accademici e leader libertari, che vedono con orrore le loro file infestate da personaggi di destra e dalle tendenze chiaramente fasciste, questo parallelo tra libertari e conservatori non è casuale, ma è strutturalmente rafforzato da una cultura abbarbicata allo status quo. Il conservatorismo è proprio questo: credere che l’attuale disposizione delle cose sia una buona soluzione di ripiego, qualcosa che è meglio lasciare così com’è invece di avventurarsi in alternative radicalmente nuove.
Mostrare scetticismo o reticenza davanti a conclusioni che turbino la norma può talvolta rappresentare una coraggiosa euristica; il mondo è complesso e se reagissimo d’istinto in risposta ad un’argomentazione anche solo lontanamente persuasiva sicuramente moltiplicheremmo gli orrori. Occorre sempre essere vigili. Ma è una vigilanza a doppio senso, non un semplice scetticismo davanti a dichiarazioni inedite o valutazioni sistemiche delle nostre strategie e tattiche; è un’indagine critica e aggressiva di ogni sfaccettatura dell’ordine esistente e delle assunzioni passive, delle abitudini e dei contesti in cui ci muoviamo. Perché tutti noi ci muoviamo in una realtà insanguinata. Il nostro mondo è immerso nel sangue, in una violenza reale, diretta, inconfutabile, rivolta contro esseri viventi. E neanche un luogo tranquillo come la biblioteca di un college in un quartiere borghese ne è esente. Il sangue è anche lì.
Certo, la maggior parte delle persone comprende bene la questione della legittimità, che è di gran lunga la più importante. Ma questa confusione sull’uso della parola “violenza” è molto significativa. L’istintiva spontaneità con cui i libertari privilegiano il titolo di proprietà, sancito dallo stato, come prospettiva automatica, lascia veramente di stucco. Se qualcuno ruba la tua bici e tu la ritrovi abbandonata di fronte a casa sua e te la riprendi non commetti assolutamente alcuna “violenza”, per quanto il ladro strilli che la bici è sua.
Quando dei manifestanti palestinesi danneggiano una barriera di confine israeliano, in nessun senso umanamente inteso stanno facendo “violenza”.