Di Chris Shaw. Originale pubblicato il 30 marzo 2016 con il titolo UK Steel is a Victim of Economic Fascism. Traduzione di Enrico Sanna.
Si parla tanto dell’erosione dell’industria dell’acciaio in Gran Bretagna. Come al solito, vediamo da una parte la sinistra statalista che spappagalla di nazionalizzazioni e aiuti di stato come soluzione, mentre dall’altra presunti sostenitori del mercato fanno spezzatino della teoria dei vantaggi comparati di Ricardo. Nessuno capisce che l’economia moderna è prigioniera dei monopoli statali e delle finte economie di scala, che nell’industria pesante favoriscono i colossi internazionali. Queste aziende non esisterebbero senza lo stato che sussidia i trasporti, impone alti costi generali e impedisce lo sviluppo di un diverso sistema di determinazione dei prezzi e dei modelli di proprietà. Al loro posto nascerebbe un’economia decentrata, con una produzione diretta tanto al consumo diretto quanto al profitto.
Gli svantaggi dell’acciaio inglese non vengono dal libero mercato, ma dalle economie di scala create dallo stato, economie che favoriscono l’attuale sistema produttivo. Questo sistema, sviluppato sulla base degli ideali produttivi tayloristi e su una microscopica divisione del lavoro, non è poi così efficiente. In gran parte dipende da contributi e sostegni di stato. È lo stato, ad esempio, che crea compratori e mercati sicuri acquistando direttamente l’eccedenza produttiva e permettendo l’ingresso di operatori esteri in certi mercati. L’acciaio cinese è un caso esemplare: il governo cinese acquista le eccedenze tramite accordi d’investimento internazionali e poi le vende a paesi africani, dove l’acciaio è utilizzato in progetti infrastrutturali con capitali cinesi. I piani infrastrutturali in territorio cinese incrementano ulteriormente la produzione, il che porta a enormi sovrapproduzioni che necessitano di solide relazioni economiche stato-industria. Con il rallentamento dell’economia cinese, però, si accumulano le eccedenze e l’industria pesante va in perdita. Per rimediare, la Cina “scarica” acciaio economico nei mercati europei, soffocando la concorrenza inglese.
Ecco quindi che questo sistema basato sul supply-push (opposto al più efficiente demand-pull) è efficiente solo se lo stato spende o per creare un mercato o per acquistare il prodotto. E poi ci sono i sostegni ai trasporti, che giocano un ruolo di primo piano. I costi della manutenzione delle strade e dell’inquinamento generato dal traffico sono a carico della collettività perché strade e vie d’acqua non hanno diritti di proprietà chiaramente definiti, e questo favorisce l’esternalizzazione dei costi tramite il fisco. E significa anche favorire i trasporti nazionali e internazionali a discapito delle economie locali, così che i costi del capitale sono tenuti artificiosamente più alti e si creano barriere che bloccano l’ingresso a modelli proprietari differenti in grado di surclassare questi monoliti industriali. Vista la loro chiara dipendenza dai grossi incentivi, sia strutturali che diretti, non c’è ragione per credere che questi attori industriali possano esistere in un mercato decentrato e liberato. Gli incentivi creano economie di scala a livello internazionale che in un vero libero mercato non esisterebbero.
Quello che abbiamo è corporativismo. Burocrati e uomini di stato privilegiano le grandi aziende al fine di tenere in vita certe egemonie economiche. Questo sistema si basa sul saccheggio dei contribuenti tramite un sistema di potere corrotto e una relazione di forza con lo stato. E come ho detto più su, questo sistema è meno efficiente di un sistema basato sulla proprietà comune o decentrata, un mercato concorrenziale e economie a livello locale. Un sistema del genere non può che chiamarsi fascismo economico.
Dato il livello raggiunto dagli aiuti e dalle garanzie di stato, però, estrapolando si può capire come in un mercato liberato l’industria dell’acciaio avrebbe tutto da guadagnare se potesse adattarsi ad economie di scala nazionale o locale utilizzando diversi modelli di proprietà e sfruttando la concorrenza tra questi modelli. Invece di affidarsi massicciamente agli investimenti di capitalisti e agenti di borsa, il capitale necessario verrebbe dal surplus dei lavoratori e le aziende sarebbero di proprietà dei lavoratori stessi o dei loro rappresentanti. Un tale mercato dei fattori di produzione permetterebbe anche una certa pianificazione, come accade nel caso della produzione a rete diffusa in Emilia Romagna, così da poter venire incontro alle necessità delle manifatture, al contrario di quanto accade ora con il sistema gerarchico di relazioni economiche tra manifatture e aziende industriali. Si potrebbe anche pianificare l’uso di beni pubblici e infrastrutture utilizzando una gestione locale delle strutture e una pianificazione decentrata.
L’industria inglese dell’acciaio non deve essere l’ennesima industria distrutta dagli interessi del capitale e dei suoi compari neoliberisti e burocrati. Può continuare ad esistere se si edificano istituzioni economiche alternative che minino le economie artificiali create dallo stato. I lavoratori dovrebbero appropriarsi delle fabbriche e cercare clienti nel mercato infrastrutturale e manifatturiero di piccola scala. Dovrebbero inoltre coltivare relazioni pianificate con le comunità resilienti che abbisognano di infrastrutture. Dimensionare le attività seguendo i bisogni di consumatori e aziende, non affidarsi allo stato o al mercato internazionale. Così si eroderebbe l’economia capitalista, ci si muoverebbe verso un futuro post-capitalista fatto di produzione programmata, proprietà dei lavoratori e mercati liberati, si incoraggerebbe la concorrenza tra diversi sistemi dei prezzi e diverse organizzazioni economiche. L’acciaio inglese ha bisogno di meno stato, deve uscire dalla dipendenza dal fascismo economico corporativo.