[Di Kevin Carson. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 2 settembre 2016 con il titolo No, Capitalism Isn’t Making Us All Richer and Richer. Traduzione di Enrico Sanna.]
Se leggete spesso e regolarmente pubblicazioni libertarie di destra, vi sarà capitato di vedere uno di quegli articoli mozzafiato che parlano di come il capitalismo stia rendendo i poveri più ricchi dei monarchi medievali. Prendiamo Calvin Beisner: “Non importa quanto ricco avresti potuto essere” 150 anni fa, “nell’afa estiva non avresti potuto godere né l’aria condizionata né una bevanda ghiacciata…. Non avresti scattato né guardato fotografie, né ascoltato musica registrata, né guardato… un film.” (“Material Progress Over the Past Millennium,” FEE, 1 novembre 1999). Mi ha sempre infuriato il modo in cui questi articoli boriosi ignorano sia l’inflazione che colpisce il costo di beni indispensabili come la casa o, cosa importantissima, la crescente precarietà di una fetta sempre più grande di lavoratori. Va detto, però, che qualcuno dell’informazione tradizionale (il Washington Post, nientemeno) nota la cosa (Christopher Ingraham, “The stuff we really need is getting expensive. Other stuff is getting cheaper,” 17 agosto).
Certo, computer, smartphone e megaschermi sono sempre meno cari. Ma così non è per molti beni indispensabili. “Dal 1996 ad oggi, il costo di alimentari e alloggi è cresciuto di quasi il 60%, più dell’inflazione. I costi dell’assistenza sanitaria e per la cura dei figli sono più che raddoppiati. Il prezzo dei libri di testo e dell’istruzione superiore quasi triplicati. Negli ultimi decenni questi costi sono cresciuti ad una velocità svariate volte il tasso d’inflazione.
E per una porzione crescente della classe lavoratrice il posto sicuro appartiene sempre più al passato. Nel mercato del lavoro, i settori che crescono più rapidamente sono quelli che impiegano “collaboratori esterni” precari, con scarse possibilità di essere riassunti dopo un anno, un mese, o anche una settimana. E la precarietà si sovrappone alla fragilità finanziaria. Come nota Neal Gabler sull’Atlantic (maggio 2016), “Molti Americani della Classe Media Vivono in Attesa dello Stipendio.” A molti americani mancano i soldi per riparare l’auto o per affrontare spese inattese anche di poche centinaia di dollari.
Precarietà non significa solo incertezza riguardo le necessità minime a termine, ma anche indebitamento crescente come modo di vita. La stagnazione dei salari ha poi peggiorato la già problematica tendenza del capitalismo, in momenti di crisi, a deprimere i consumi e far crescere le capacità inutilizzate; di conseguenza, il sistema ha generato domanda soltanto indebitando il consumatore.
Tutto ciò che è indispensabile alla vita e alla sicurezza materiale, inoltre, è proprio quello che i capitalisti, in combutta con lo stato, sono riusciti a blindare con fittizi diritti di proprietà al fine di estrarne rendita parassitaria. Ne è chiaro esempio il latifondista, che occupava e recintava un terreno incolto per tenerlo inutilizzato oppure per darlo in uso dietro il pagamento di un tributo.
Ma anche l’industria della salute è infestata da cose come i brevetti sui medicinali, il monopolio degli ordini professionali che restringe il numero di praticanti, e le grandi aziende ospedaliere che, grazie allo stato, sono protette da ogni genere di barriere all’ingresso e da un sistema corrotto di credenziali che gonfia i costi con uno spreco enorme e irrazionale di denaro e paghe dirigenziali gonfiate a dismisura. Quanto all’industria dell’assicurazione sanitaria, è un racket. Ma il motore primo dell’inflazione dei costi è nel campo dei servizi, con tutto quell’intrico di monopoli e cartelli che fanno sì che ogni procedura in America costi svariate volte quello che costa altrove.
L’istruzione superiore è diventata una necessità soprattutto perché stato, datori di lavoro e industria scolastica superiore hanno unito gli sforzi per gonfiare i requisiti minimi per accedere ad un lavoro. Data questa necessità artificiale, e la voglia dell’industria dei prestiti scolastici di snidare nuove vittime, l’industria scolastica superiore spreca tutta questa massa di denaro, versata da una clientela in trappola, in inutili progetti faraonici e in aumenti delle paghe degli amministratori, che sono svariate volte gli stipendi del personale. Intanto, però, per pagare queste rette gonfiate gli studenti si ritrovano davanti una vita di indebitamento, con la probabile prospettiva di anni di apprendistato gratuito prima di accedere al primo gradino salariale da colletto bianco.
Ovviamente, anche in quei casi in cui i costi dei beni calano davvero, il calo dei prezzi non elimina la questione giustizia. Gran parte del prezzo dell’elettronica non viene dalla quantità di manodopera e dal materiale necessario a produrla, ma dalle rendite monopolistiche date dai diritti di brevetto e dai copyright, rendite incorporate nel prezzo finale. E l’accesso ad internet di un computer avviene tramite vie telematiche controllate da quei baroni di rapina che sono le telecom monopolistiche che operano culo e camicia con lo stato. Sì, è vero che i prezzi sono calati, ma solo di una frazione di quanto avrebbero dovuto. E la differenza va nelle tasche dei rentier parassitici.
No, Enrico VIII non aveva né l’aria condizionata né il computer. Ma neanche spendeva metà dello stipendio per l’affitto, né viveva ad un mese di stipendio dallo sfratto.
Sarebbe ora che i libertari smettessero di raccontare la storia di come è meraviglioso il mondo sotto il capitalismo e con l’alleanza blasfema dei latifondisti con lo stato, e cominciassero ad attaccare questo patto collusivo tra poteri. Bisogna abolire tutti i monopoli e i diritti artificiali di proprietà, e trasformare in una fonte di reddito la produttività del nostro intelletto collettivo.