Recensione: Il Manifesto Comunardo della Cooperativa Las Indias

[Di Kevin Carson. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society l’undici agosto 2016 con il titolo Review: The Communard Manifest, by Las Indias Cooperative Group. Traduzione di Enrico Sanna.]

The Communard Manifesto (Las Indias, May 9, 2016). Translated by Level Translation.

Introduzione: il Manifesto Comunardo è opera della Cooperativa Las Indias. È un tentativo pratico di mettere su una phyle, cioè una piattaforma di supporto economico con una struttura a rete non-territoriale, del genere che David de Ugarte, de Las Indias, descrive in teoria nel suo libro Phyles del 2009.

La parola “phylé” viene dal libro di Neal Stephenson The Diamond Age, che parla di reti globali che fungono da piattaforma di supporto per una serie di enclavi fisiche locali, ovvero i nodi della rete, e le loro interazioni.

Secondo Ugarte, il concetto di phylé prende molto dal concetto di “neo-venezianesimo” (una comunità aterritoriale, a rete, i cui membri sono enclavi territoriali, che fornisce vari generi di supporto ai nodi locali). Come le medievali corporazioni delle arti, la phylé agisce da piattaforma di supporto per le attività dei propri membri e per le enclavi sul territorio. Alcuni esempi vanno dal credito a basso interesse agli investimenti seed, alla formazione e certificazione, forme di assicurazione economica (anche contro la disoccupazione), assistenza legale, acquisti e marketing in forma cooperativa, software collaborativo, alloggi per soci viaggianti e altri simili.

Las Indias è, innanzitutto, una comunità con sedi fisiche in Uruguay e Spagna. La sua attività economica (emanazione diretta della sua attività comunitaria e delle sue relazioni fraterne) consiste in una serie di cooperative.

Come il Manifesto Comunista di 168 anni prima, il Manifesto Comunardo inizia mettendo a confronto le tecnologie rivoluzionarie dell’abbondanza con le relazioni sociali della produzione a cui sono costrette. Queste relazioni sociali sono lacerate da contraddizioni: diseguaglianza, disoccupazione e decomposizione sociale. E come per il Manifesto Comunista, anche per il Manifesto Comunardo la preoccupazione prima è come queste nuove forze produttive rivoluzionarie arriveranno ad uscire dal guscio per formare le basi di una nuova società post-capitalista, con una forma sociale ed economica coerente con l’abbondanza.

Le forze dell’abbondanza non comprendono soltanto le tecnologie produttive come le micro manifatture, ma anche i nuovi metodi sociali di organizzazione della produzione: l’etica hacker, la produzione tra pari basata su beni comuni, la libera informazione e la collaborazione orizzontale.

Il vecchio sistema economico capitalista sta cercando di ingabbiare questa abbondanza per poterne poi estrarre rendita. Contemporaneamente, le tecnologie dell’abbondanza stanno riducendo drasticamente il bisogno di lavoro produttivo, distruggendo così il lavoro salariato come sistema che permette di acquisire un potere d’acquisto sufficiente al consumo di beni gratis o economici a prezzo di monopolio. Il tentativo di imporre una scarsità artificiale all’abbondanza, per il profitto di pochi, porta a consumi cronicamente bassi, disoccupazione e depressione.

A differenza dei marxisti (o almeno della vecchia sinistra all’epoca della produzione di massa), gli autori del Manifesto Comunardo non vedono nella società post-capitalista un’estrapolazione logica della produzione su larga scala propria del capitalismo. Né immaginano una transizione basata sull’attacco da parte di partiti rivoluzionari basati sugli stessi principi della produzione di massa e su larga scala come nel capitalismo industriale del 20º secolo.

Il Manifesto Comunardo, invece, rientra nella tradizione delle opere autonomiste di Dyer-Witheford, Negri e Hardt (soprattutto l’enfasi che gli ultimi due pongono sull’“Esodo” in Commonwealth), How to Change the World Without Taking Power di Holloway, e Post-Capitalism di Mason. Citando lo stesso Manifesto, “il nuovo mondo nascerà e si affermerà dentro il vecchio.”

I cambiamenti profondi nelle relazioni sociali ed economiche (i cambiamenti sistemici) non sono il prodotto di rivoluzioni o cambiamenti politici. Al contrario, il cambiamento politico del sistema è il risultato di nuove forme organizzative della società, di nuovi valori, di nuovi stili di vita e di lavoro che hanno maturato abbastanza da poter attirare un ampio consenso sociale. Ad un certo punto si stabilisce una “competizione tra sistemi”. Le nuove forme, fino ad allora valide solo per una piccola minoranza, cominciano ad apparire le uniche capaci di offrire un futuro migliore per la grande maggioranza. Poco a poco, si espandono in numero e in offerte, coprendo e trasformando spazi sociali sempre più ampi, fino a diventare il centro dell’economia, riconfigurando dall’interno la base culturale, ideologica e legale della società.

Man mano che le tecnologie dell’abbondanza diventano meno costose, più accessibili e di scala più piccola, la fuga tramite l’edificazione di contro-istituzioni (l’Esodo) diventa sempre più fattibile in alternativa al tentativo di conquistare il cuore del vecchio sistema.

La comparsa di nuovi metodi produttivi basati su nuove forme di proprietà comune (come il software gratuito), unite alle architetture della comunicazione diffusa (connessa alla demercificazione e alla creazione di abbondanza), fanno capire che stiamo per assistere ad una nuova fase in cui potremo cambiare la natura della competizione tra sistemi.

Ma ciò che più di tutto giustifica una nuova era per lo sviluppo del comunitarismo è un cambiamento economico irreversibile imposto gradualmente: la riduzione delle dimensioni ottimali dei sistemi produttivi. Questa riduzione spiega le tendenze di fondo che hanno prodotto le attuali crisi economiche, e perché le risposte politiche e corporative sono spesso controproducenti. E tutte le alternative non hanno al centro una classe sociale o la nazione, ma la comunità.

La rapida riduzione delle dimensioni ottimali dei sistemi produttivi, così come degli investimenti necessari alla produzione, ha dato luogo ad una crisi economica in cui quantità enormi di capitali, accumulati per essere investiti, non trovano uno sbocco remunerativo: “sono sempre meno le nuove grandi industrie che giustifichino investimenti grandiosi.” La risposta neoliberale, che consiste nel rifinanziare i mercati, generando bolle finanziarie che assorbono le bolle precedenti (fin dagli anni ottanta un tema ricorrente dell’analisi marxista del gruppo Monthly Review) ha portato al crash del 2008.

Al contrario, le nuove tecnologie richiedono pochissimo in termini di investimenti e possono essere gestite da cooperative di piccoli produttori, o da comunità locali, rendendo così irrilevanti i capitali finanziari.

Possiamo raggruppare queste nuove forme in due tendenze approssimate: il modello produttivo “P2P” e la “economia diretta”. Il primo replica il modello generato dal software gratuito in tutte quelle industrie in cui la conoscenza si esprime nel design, il software, la creatività, la progettazione, eccetera. È un tassello importante nella creazione di valore, e può accumularsi fino a formare “beni comuni universali” che possono essere migliorati, modificati e usati in modi alternativi per progetti di generi diversi.

La multifunzionalità degli strumenti e della catena del valore (quella che gli economisti chiamano “scopo”) è il punto chiave dell’economia diretta, un modo che permette a piccoli gruppi di creare prodotti e lanciarli nel mercato globale servendosi, da un lato, di software gratuito e catene industriali esterne, adattabili e a basso costo e, dall’altro, di vendite in acconto o di finanziamenti collaborativi.

Ovvero, prima e dopo quest’ultima grande crisi si è sviluppato davanti ai nostri occhi un nuovo genere di industria su scala ristretta, caratterizzata dal fatto di essere globale e di ottenere capitali e credito fuori dal sistema finanziario. Questo sviluppo è avvenuto parte in piattaforme finanziarie collaborative, e parte annunciando prevendite e ottenendo donazioni in cambio di merci. Si tratta, in realtà, di un’industria a capitali “liberi”, che non è costretta a cedere la proprietà delle attività ai possessori di capitali perché, da un lato, riduce i propri bisogni servendosi di strumenti tecnologici, come il software gratuito, disponibili a tutti e, dall’altro, perché ottiene il poco capitale necessario sotto forma di vendite in acconto e donazioni.

Messi assieme, produzione P2P ed economia diretta, due modi per sostituire le dimensioni di scala con lo scopo, rappresentano l’avanguardia di un’economia produttiva che si muove sempre più verso la riduzione delle dimensioni di scala. Fattori essenziali per capire perché il comunitarismo ha un’opportunità unica in questo nuovo secolo.

L’unico punto che contesterei è l’accento posto sulla produzione per l’economia globale da parte di queste piccole manifatture. Una produzione snella è particolarmente adatta a forniture a corto raggio, con la produzione che si adatta direttamente alla domanda e che, nei limiti dell’efficienza tecnica, è posta il più vicino possibile al punto di consumo. Io credo che la stragrande maggioranza delle micromanifatture, in un’economia post-capitalista, lavorerebbero per fornire un mercato a dimensione di vicinato, di comunità o di regione, piuttosto che una rete commerciale globale.

Discrepanze a parte, il Manifesto Comunardo considera il percorso di transizione come prefigurativo: dimostrare cosa è possibile fare qui e adesso, lasciando campo aperto per un’adozione rapida durante la transizione.

Anche se siamo ancora lontani da un’abbondanza diffusa, possediamo il modello che permette di produrre beni intangibili e innovazione in abbondanza: il “modo di produzione P2P”. Questo a sua volta alimenta un settore, l’economia diretta, che si dimostra abbastanza produttivo nel mercato da competere e battere l’industria “dall’esterno”, senza l’aiuto di capitali finanziari sovradimensionati. Ovvero, questo nuovo ecosistema produttivo può competere e superare un gigante che gode del vantaggio di rendite esterne al mercato, come normative ad hoc, sovvenzioni e brevetti. Parliamo di quelle rendite esterne al mercato che con il neoliberalismo si sono moltiplicate erodendo contemporaneamente stato e mercato, ovvero arrivando alla decomposizione sociale. Ecco perché dimostrare semplicemente che esiste un’alternativa produttiva è già di per sé una grande notizia.

Questo spazio sociale e produttivo attorno ai “nuovi beni comuni digitali”, o semplicemente i “beni comuni”, è l’equivalente odierno delle prime città e dei primi mercati della borghesia medievale. È uno spazio in cui compaiono nuove relazioni sociali non commerciali, e la nuova logica, unita ai primi segni di autonomia, inizia a mostrare un impatto limitato ma diretto sulla produttività.  Durante il medioevo, la borghesia riuscì a prendere la guida di quelle città per trasformarle, prima, in una grossa “bottega urbana” e, poi, in una “democrazia municipale”. Una simile impresa storica, ora con l’obiettivo di una società dell’abbondanza, è nel futuro del comunitarismo.

Questo perché tutta questa riduzione in scala porta le dimensioni delle unità produttive a coincidere sempre più con le dimensioni della comunità, e dunque vede nella comunità il protagonista di una società dell’abbondanza.

Così, come già per Commonwealth di Negri e Hardt, anche per il Manifesto Comunardo l’estensione delle nuove relazioni produttive coincide con la comunità e le relazioni sociali sono orizzontali, mentre il capitale diventa sempre più esterno e irrilevante ai fini della produzione.

In un’economia capitalista, con le tecnologie dell’abbondanza ingabbiate dalla “proprietà intellettuale” e dalle pratiche monopolistiche, l’abbondanza ingrossa i profitti di chi detiene la proprietà e impoverisce tutti gli altri. In un’economia post-capitalista, con l’abolizione dei monopoli e il controllo della produzione nelle mani della comunità, la crescita dell’abbondanza va a beneficio di tutti grazie alla riduzione del lavoro necessario a garantire un certo standard di vita.

Il risultato in via generale sarà un aumento della nostra capacità d’azione e del nostro controllo su ogni aspetto della nostra vita: reintegreremo il nostro lavoro nel resto della nostra vita sociale, e rivendicheremo a noi il ritmo lavorativo così come succedeva nel mondo precapitalistico degli artigiani autonomi e dei contadini liberi. Finirà anche il condizionamento psicologico dato dalla scarsità, condizionamento che ci pone l’uno contro l’altro, così come finirà l’autoritarismo sociale. Gli strumenti della produzione su scala limitata porteranno ad una società molto simile a quella immaginata da Kropotkin, dove la distinzione tra città e campagna, e tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, scompaiono.

Sviluppare questa società entro il guscio di quella vecchia significa espandersi lungo le linee della phylé cominciando dai nodi esistenti.

Le comunità egualitarie dovrebbero avviarsi su un percorso che permetta loro di passare dall’attuale modello, basato sulla resistenza e la resilienza della “piccola comunità”, ad uno che prenda l’avvio da una grossa rete di comunità egualitarie e produttive. Dobbiamo far crescere quei germogli che possono mantenersi nel mercato, e allo stesso tempo dobbiamo creare nuovi spazi per l’abbondanza e la demercificazione. E dobbiamo prendere il concetto di demercificazione e far sì che permei lo spazio circostante. È ora che i sistemi siano messi in concorrenza tra loro.

Arriverà il momento in cui dovremo imparare a crescere in molti modi nuovi: incorporando nuovi elementi, facendo crescere comunità, insegnando tecniche comunitarie nei vicinati, o creando università popolari di nuovo genere, che forniscano gli strumenti alla multispecializzazione.

Ci ritroviamo ad affrontare un problema gigantesco creato dal sovradimensionamento di scala, e dobbiamo farlo partendo dai piccoli, con i piccoli, e un passo per volta. Dobbiamo servirci della diversità e dell’abbondanza per uscire dalla trappola in cui tende sempre a cadere una cultura in decomposizione, una trappola che amplifica il senso della sconfitta, il pessimismo e l’idea del “si salvi chi può”. Non sarà una passeggiata, e l’opposizione sarà sicuramente dura.

Anarchy and Democracy
Fighting Fascism
Markets Not Capitalism
The Anatomy of Escape
Organization Theory