[Di Kevin Carson. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 18 agosto 2016 con il titolo Free Culture Benefits Everyone But the Middleman. Traduzione di Enrico Sanna.]
Mike Masnick, su Techdirt, racconta (“Photographer Learns to Embrace the Public Domain — And is Better Off For It,” 5 agosto) come il fotografo svizzero Samuel Zeller abbia scoperto i vantaggi (per il suo tenore di vita!) dell’esposizione sul pubblico dominio. Ha messo una grossa fetta delle sue opere sul pubblico dominio sotto licenza Creative Commons CC0, e le ha pubblicate sul sito Unsplash. I conseguenti 63 milioni di visualizzazioni e 613.000 download hanno portato un traffico enorme al suo portfolio online, aumentando di molto i suoi affari. In breve, “dare via” gratis opere del passato significa pubblicità gratuita per i servizi a pagamento.
È una strategia comunissima… e di successo: offrire contenuto gratis unendolo ad altri servizi a pagamento. I Phish permettono la registrazione gratuita e la condivisione in rete dei loro concerti, per poi guadagnare con i biglietti d’ingresso e i gadget come magliette e adesivi. Linux è gratis e open source, ma chi lo distribuisce può guadagnare vendendo supporto tecnico e servizi personalizzati.
Io guadagno un po’ di soldi in royalty da qualche libro che ho pubblicato, acquistabile online. Onestamente, dubito che ne venderei una singola copia se confidassi nel modello proprietario convenzionale, che consiste nel far pagare senza che gli acquirenti possano vedere prima il prodotto. Io sono un autore relativamente sconosciuto, anche nell’ambiente libertario in senso ampio, e scrivo per un mercato di nicchia. Nessuno sborserebbe alcunché per un libro se prima non potesse, almeno metaforicamente, prenderlo in mano e sfogliarlo. Sono convinto che i pdf gratis dei miei libri che io pubblico online generino più copie stampate di quanto non avverrebbe altrimenti. Chi dà un’occhiata al pdf e non compra il libro stampato quasi certamente quel libro non lo comprerebbe comunque a scatola chiusa. Al contrario, molti dopo aver visto il pdf decidono di prendere il libro in un formato facile da portare con sé, da farci le orecchie e sottolineare.
Cercare di guadagnare facendo pagare per vedere e punendo chi condivide un’opera è il sistema più adatto per ridurre le vendite. Io stesso ho avuto una brutta esperienza qualche anno fa. La copertina originale del mio secondo libro, Organization Theory, aveva un’immagine notissima intitolata “Head up *ss” (A testa in culo, es): come si intuisce dal titolo, raffigurava una persona in cravatta con la testa infilata in culo. Si trova dappertutto su internet, quasi sempre senza attribuzione o generalità dell’autore. Circa nove mesi dopo la pubblicazione, mi è arrivata un’email di un designer, l’autore di “Head up *ss”, che mi chiedeva di rimuovere l’immagine pena una denuncia. Avendo appreso dell’identità dell’autore, che vantava credito sull’immagine, mi offrii di pagare per il suo uso, ma lui rifiutò: non era interessato alla vendita. Immaginate un po’: l’immagine era dappertutto sul web, era virale, riconoscibilissima, ma non esistevano indicazioni sul suo autore. Se l’autore me ne avesse concesso l’uso, io avrei volentieri messo i suoi estremi nel libro e avrei fatto del mio meglio per procurargli lavoro. La sua identità come creatore di quella famosa immagine avrebbe rappresentato un’incredibile pubblicità per i suoi servizi grafici; e il mio libro gli avrebbe procurato molto più lavoro di quanto non ne avesse allora, che credo che fosse pari a zero. Ma il suo senso della “proprietà” glielo vietava.
Imporre un pagamento che faccia da barriera ad un contenuto è come criminalizzare qualcuno per aver dato indicazioni su come arrivare al tuo negozio. L’esempio più stupido che mi viene in mente è il tentativo di Rupert Murdoch di impedire a Google di mostrare articoli presi dalle sue pubblicazioni tra i risultati delle ricerche. “Il Vecchio Strilla contro Internet”.
Credo che l’esperienza di Zeller, così come la mia, siano molto diffuse. La condivisione in rete, per dire, ha distrutto una grossa fetta degli introiti dell’industria discografica. Ma queste perdite colpiscono le compagnie discografiche e i loro profitti. Gli artisti in sé non hanno subito perdite significative, e probabilmente vendono di più grazie alla condivisione.
La cultura gratis beneficia i consumatori, gli artisti e la cultura in generale. Chi non ne trae profitto è la grande industria. Tanto peggio per loro.