[Di Kevin Carson. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 15 maggio 2016 con il titolo Of Turtles and Fence Posts. Traduzione di Enrico Sanna.]
Un vecchio detto recita: quando vedi una tartaruga in cima ad un palo, capisci che non ci è arrivata da sola. Nell’ideologia capitalista ufficiale, soprattutto nella versione che prevale nell’America neoliberal, una grande ricchezza è considerata un premio alle alte capacità imprenditoriali, alla lungimiranza e all’iniziativa. Come scrisse l’economista austriaco Ludwig von Mises in una lettera di ammirazione a Ayn Rand, “Tu hai il coraggio di dire alle masse quello che nessun politico dice: voi siete inferiori e ogni miglioramento della vostre condizioni, che voi semplicemente date per scontato, lo dovete allo sforzo di uomini che sono meglio di voi”. Pare, però, che la stragrande maggioranza dei miliardari, lungi dall’essere quei geni celebrati da Mises e Rand, siano molto più simili alla tartaruga in cima ad un palo.
Un rapporto di Didier Jacobs, economista della Oxfam, “Extreme Wealth is Not Merited” (novembre 2015), ha scoperto che il 74% dei miliardari si è arricchito con industrie i cui profitti vengono soprattutto da rendite economiche (cioè, l’uso del potere monopolistico per far pagare prezzi superiori a quelli di mercato necessari a portare i prodotti sul mercato). Secondo Jacobs, questi profitti in monopolio sono concentrati in industrie che “dipendono pesantemente dallo stato sia tramite commesse governative, licenze e incentivi”, industrie come la finanza che trae profitto dall’informazione imperfetta, che da industrie come l’informatica e l’intrattenimento, industrie caratterizzate “dalla combinazione della proprietà intellettuale con le cosiddette ‘esternalità di rete’”.
Nonostante citi gli “incentivi”, secondo me Jacobs non pone abbastanza accento sul fatto che industrie estrattive, come quelle minerarie, petrolifere e agroindustriali dipendono dal furto e dal saccheggio del territorio e delle risorse di tutto il mondo, soprattutto in paesi del sud dove i possedimenti aziendali risalgono all’era coloniale e dove fattorie e miniere sono state probabilmente messe su dagli schiavi.
Questo 74%, basato su un’analisi industria-per-industria di come il modello industriale corporativo estragga megaprofitti esternamente dai consumatori e dallo stato, ignora anche le modalità, comuni a tutta l’industria capitalistica, in cui i datori di lavoro estraggono ricchezza internamente sfruttando l’impari potere contrattuale che hanno rispetto ai dipendenti. Storicamente, il sistema salariale nacque dalla separazione forzata tra il contadino e i suoi tradizionali diritti alla terra. A ciò, nel corso dei secoli seguenti, si aggiunsero innumerevoli altri monopoli e privilegi, la cui funzione è la protezione del capitale dalla necessità di competere con le prospettive del lavoro autonomo e dell’autosostentamento.
Un altro studio dell’Onu (“Natural Capital at Risk: The Top 100 Externalities of Business,” Trucost, aprile 2013) ha scoperto che solo pochissime industrie sarebbero in attivo se ci fosse l’obbligo di tenere in conto l’inquinamento e gli altri costi ambientali che le industrie scaricano sul pubblico.
Dunque, se si vuole inquadrare la cosa in termini di “chi fa contro chi prende”, distinzione resa popolare dal Tea Party qualche anno fa, i miliardari incassa-cedole e gli alti dirigenti aziendali, che possiedono gran parte della ricchezza mondiale e ricevono da essa gran parte dei loro introiti, stanno decisamente tra chi prende. E la funzione principale dello stato sta nell’aiutarli a prendere.