Nel suo classico Quel che si Vede e quel che non si Vede, Frédéric Bastiat osserva: “Tra un cattivo economista e un buon economista c’è una sola differenza: Il cattivo economista considera unicamente gli effetti visibili; il buon economista prende in considerazione sia gli effetti visibili che quelli che andrebbero previsti.” Mark J. Perry, dell’American Enterprise Institute (AEI), sta dalla parte dei “cattivi” in questa classificazione di Bastiat.
Leggendo un rapporto sugli introiti provenienti dalle tasse federali sul reddito scritto dalla Commissione Bilancio del Congresso (Cbo), Perry deduce: “i ricchi pagano più della loro giusta quota del carico fiscale, e sarebbe ora che cominciassimo a chiederci se non è semmai il 60% più povero a non pagare la sua quota equa.” L’argomento ha a che fare più con l’analisi di classe che con le tasse. Nascosto nell’ombra, infatti, c’è l’intervento statale che infetta ogni transazione economica.
Perry ha ragione quando parla della tassa federale sul reddito. “Nel 2011, al termine del processo di trasferimento della ricchezza, il 60% più povero delle unità famigliari risultava ‘incassatore netto’ con un’aliquota negativa, mentre il restante 40% era formato da ‘pagatori netti’ con un’aliquota positiva. Il peso della tassa sul reddito dunque ricade pesantemente sui due quintili più ricchi.
Ma il fisco non è affatto l’unico fattore da prendere in considerazione se si vuole capire se un dato quintile paga o meno la sua “quota equa”. Dobbiamo andare oltre termini politici vuoti come “quota equa”. Se gli avidi politici non fanno altro che ripetere strumentalmente l’espressione, non è chiaro cosa intenda la gente, compreso Perry, quando la usa.
La vera questione è la relazione tra i vari quintili della popolazione. Da che parte stiano le menti dell’AEI non è chiaro. Pensano che la relazione tra i quintili più ricchi e quelli più poveri sia una relazione di sfruttamento, ovvero una parte estrae ricchezza dal resto. A parti invertite, però.
In un mercato libero, la relazione tra quintili (sempre che esistano) sarebbe simbiotica, caratterizzata dal mutuo interesse personale e dal mutuo profitto. Dopotutto, in un mercato libero affinché ci sia un interscambio occorre che entrambe le parti ne traggano beneficio. Chiunque sia libero di disporre di ciò che possiede e di scegliere autonomamente è anche libero di partecipare spontaneamente a qualunque interscambio mutuamente vantaggioso.
La cosa cambia quando ci sono coercizioni. Quando il potere diventa un fattore di una transazione precedentemente volontaria, la relazione tra le parti diventa una relazione di sfruttamento piuttosto che di mutuo beneficio. E il problema è che noi non viviamo in un mercato libero. Viviamo in un mercato dominato dal potere statale.
Se è vero che la politica fiscale va contro i ricchi, è anche vero che gran parte delle restanti politiche sortiscono l’effetto contrario. Gran parte delle leggi nascoste nell’ombra del mondo economico promuove la concentrazione del potere economico nelle mani di poche, ricche clientele politicamente protette.
La politica monetaria, ad esempio, premia chi per primo riceve la nuova moneta (le grandi banche) a spese di tutti gli altri, che poi devono fronteggiare l’aumento dei prezzi quando i nuovi dollari arrivano a loro. Poi c’è la proprietà intellettuale, che crea e protegge diritti artificiali e impedisce ai nuovi arrivati di competere. E ancora leggi urbanistiche, ordini professionali, regolamenti sulla sicurezza, requisiti di capitalizzazione e altre forme di burocratismo che frenano la competizione e beneficiano le grandi imprese già nel mercato a spese di quelle più piccole, dei potenziali concorrenti, di chi è agli inizi e di tutte quelle forme di impiego alternativo. E la lista non finisce qui.
Lo stato è responsabile della disuguaglianza strutturale, ma riesce a confondere i sostenitori del libero mercato inducendoli ad accusare il quintile sbagliato con politiche secondarie (come le tasse e i trasferimenti). Perry si limita agli effetti visibili dell’attuale politica fiscale, ignorando gli effetti invisibili di altri interventi statali nascosti nell’ombra, che frenano ogni possibile concorrenza e innovazione. In breve, il clientelismo e una politica che concentra la ricchezza non fanno altro che impedire un mercato altrimenti libero, e più che compensano gli effetti della tassazione.